Alcuni studenti del liceo “Alexis Carrel” di Milano, che il 4 marzo voteranno per la prima volta, hanno inviato al sussidiario una lettera, rivolgendo ai politici, a tutti, sette domande a tutto campo. Temi che stanno a cuore ai diciottenni e alle esperienze che vivono ogni giorno, dall’integrazione al lavoro, dall’educazione al ruolo dell’Europa.
Maurizio Lupi, deputato e coordinatore nazionale di Noi con l’Italia-Udc, ha raccolto la sfida. “L’integrazione non è un pezzo di carta, lo ius soli; l’integrazione è un’esperienza, nella quale sei accolto con dignità”. L’Europa? “Deve tornare a essere un’opportunità, non una gabbia e per cambiare l’Europa, bisogna esserci”. Il ruolo delle scuole paritarie? “La libertà di educazione, la piena parità, l’autonomia delle scuole e tutto quello che questo porta con sé (merito e competenza, efficienza e risparmio economico per la collettività) sono la battaglia decisiva per il futuro. Chi non investe in educazione è destinato a finire”. E il lavoro? Come far sì che tanti giovani, molto qualificati, debbano andare all’estero per avere un impiego adeguato? “L’assistenzialismo di Stato è un vecchio male del nostro Paese”, meglio “finanziare l’occupazione e aiutare le imprese, che il lavoro lo creano. Allora devo incentivare fiscalmente chi fa ricerca, chi investe in innovazione, chi assume giovani e anche i cinquantenni che hanno perso lavoro e che hanno ancora un patrimonio di competenza e di energie da offrire alla collettività”.
Ciascuno di noi nella propria classe o nella propria squadra ha amici stranieri. Per questo capiamo che l’integrazione è prima di tutto un compito di ciascuno di noi. Come posso aiutare i miei amici stranieri a integrarsi? Lo ius soli aiuta a fare questo percorso? Ci sono molte strutture come Portofranco che fanno un bel lavoro per aiutare l’integrazione. Non si può puntare su di esse? Come volete muovervi rispetto ai nostri amici stranieri e a tutti gli stranieri che ci sono?
Nella vostra domanda c’è già la risposta: l’integrazione avviene attraverso esperienze come quella di Portofranco. Che vanno incentivate e sostenute. O attraverso esperienze come quelle delle Suorine del Martinengo, che una volta mi hanno raccontato questo episodio. C’era appena stato l’attentato di Nizza, un camion piombato sulla folla che uccise 86 persone e ne ferì oltre 300, e loro portarono i ragazzini del doposcuola al mare: egiziani, italiani, ucraini, sudamericani… Si misero a giocare e a cantare sulla spiaggia. Dopo un po’ si avvicinò un signore che li stava osservando da tempo, e disse: “Questa è la vera risposta alla strage di Nizza”. L’integrazione non è un pezzo di carta (ius soli), l’integrazione è un’esperienza, nella quale sei accolto con dignità. E la cittadinanza non è un punto di partenza, ma il termine di un percorso, come dice anche il presidente della Cei, cardinal Bassetti: un percorso che passa dall’imparare la lingua, la cultura, la storia e i valori della società di cui si chiede di diventare parte come cittadini.
Un altro tema che abbiamo affrontato è quello dell’Europa, a cui riconosciamo l’importanza che ha avuto storicamente per l’Italia e che ha tuttora. Infatti vediamo in essa grandi possibilità per il nostro Paese e per i giovani come il fatto di potersi muovere liberamente o gli sbocchi lavorativi che offre. Tuttavia ci sembra che l’Europa stia diventando per l’Italia un dover sottostare a norme e sanzioni di Paesi più forti che spesso vanno contro i nostri interessi. Come intendete muovervi?
L’Europa deve tornare a essere un’opportunità e non una gabbia. Questo lo capiscono soprattutto i giovani attraverso esperienze come, ad esempio, l’Erasmus. Voi vi sentite quasi naturalmente europei, mentre non c’è ancora un’opinione pubblica europea. È dal basso che la si può creare, incrementando gli scambi tra scuole, tra università, tra istituzioni culturali, favorendo collaborazioni tra imprese. C’è poi il problema di contare di più come Paese nell’Unione europea. La prima condizione è la nostra stabilità politica, la stabilità economica (che ha un nome: sviluppo), l’unità del Paese quando si presenta all’estero, mentre spesso purtroppo usiamo l’Europa per le nostre battaglie politiche interne. E poi nell’Europa bisogna investire anche come prospettiva di lavoro, altri Paesi l’hanno fatto e a Bruxelles nell’alta amministrazione della Ue è più facile incontrare spagnoli, francesi e tedeschi che italiani. Per cambiare l’Europa, bisogna esserci.
Alcuni di noi frequentano scuole paritarie che ci sembrano portare valore allo Stato: sono di buona qualità e permettono allo Stato di risparmiare. Ad esempio, guardando i dati della Fondazione Agnelli, abbiamo notato che molte di esse occupano le prime posizioni della classifica. Se le scuole paritarie portano vantaggi allo Stato, perché non favorirle?
Sulle scuole paritarie sfondate una porta aperta. Sono scuole pubbliche a pieno titolo, perché svolgono un servizio pubblico. La piena parità è da sempre un obiettivo della mia azione politica. Abbiamo iniziato con la legge Berlinguer del 2000, abbiamo proseguito difendendo con i denti il fondo di 500 milioni per le paritarie, ma, soprattutto, due anni fa finalmente è stato stabilito il principio che i genitori possono detrarre parte della retta che pagano per i figli iscritti alle paritarie. Questo purtroppo non avviene ancora del tutto, ma l’importante è stato stabilire il principio a livello fiscale, ora si tratta di proseguire su questa strada. Si è abbattuto un pregiudizio ideologico – la scuola pubblica è solo quella statale – che alcuni come i 5 Stelle e la sinistra radicale cercano di riportare in auge. Non si deve tornare indietro. La libertà di educazione, la piena parità, l’autonomia delle scuole e tutto quello che questo porta con sé (merito e competenza, efficienza e risparmio economico per la collettività) sono la battaglia decisiva per il futuro. Chi non investe in educazione è destinato a finire. Soprattutto non bisogna tornare indietro da esperienze positive, che hanno realmente permesso l’attuazione del principio di libertà di educazione e di scelta da parte delle famiglie, come, ad esempio, il Buono scuola della Regione Lombardia.
Vi raccontiamo la storia di due nostri amici: Giovanni, laureato in giurisprudenza, ha 35 anni ed è assunto come stagista in uno studio; Giacomo, laureato in fisica con il massimo dei voti, è costretto a viaggiare tra Francia e Germania per fare la carriera universitaria. Pur riconoscendo il valore della possibilità di studiare e lavorare all’estero, questo non può escludere la possibilità di rimanere in Italia nel caso uno lo desideri. Perché molti nostri amici laureati devono andarsene se vogliono avere un lavoro adeguato?
Una prima osservazione: se c’è la cosiddetta fuga di cervelli all’estero, vuol dire che il nostro sistema universitario produce cervelli. La tanto vituperata università italiana è apprezzata all’estero. In secondo luogo, per certe professioni, ad esempio per chi voglia intraprendere la carriera universitaria, la dimensione internazionale è ormai imprescindibile, ed è un arricchimento. Il problema è semmai rendere attrattivo il nostro sistema di ricerca, in modo che laureati stranieri vogliano e chiedano di venire a fare ricerca in Italia. Passa da questa strada anche il ritorno dei nostri laureati che vanno all’estero. Qui c’è oggettivamente un problema di risorse, che sono da aumentare, e del loro utilizzo. Secondo me, la strada è quella dell’autonomia degli atenei e di un sistema di valutazione che non eroghi finanziamenti a pioggia, ma premi i risultati. Come sempre, la soluzione non sarà istantanea, c’è un percorso da fare, un atteggiamento culturale che deve prendere sempre più spazio.
Studiando in questi cinque anni abbiamo capito di quale cultura e tradizione è in possesso l’Italia. Il 50% dei beni dell’Unesco è in Italia. Come si può valorizzare il nostro patrimonio?
Il primo patrimonio culturale che abbiamo sono le persone, la genialità, la creatività, la capacità di affrontare situazioni complesse e difficili che la storia del nostro Paese documenta. Quindi, mi ripeto, il primo investimento per valorizzare il nostro patrimonio culturale è in educazione e formazione. Nello specifico, poi, ritengo che si debba dare sostegno non solo alle grandi istituzioni culturali, ma anche ai musei e ai teatri di provincia e valorizzare i loro tesori d’arte attraverso una forte defiscalizzazione delle donazioni private. Bisogna potenziare le ambasciate e gli istituti di cultura italiana all’estero, come avamposti del nostro patrimonio culturale e della promozione turistica. Occorre individuare un budget per la promozione del turismo in Italia, ricavandolo dagli introiti dei visti turistici. Si devono facilitare le procedure e ridurre i costi per la concessione di opere d’arte ai fini dell’allestimento di mostre organizzate con il patrocinio degli istituti di cultura. Si potrebbe, inoltre, istituire la Biennale d’arte per i giovani artisti. Un discorso a parte infine merita la musica: il sostegno agli studenti dei conservatori per l’acquisto degli strumenti, come ha fatto in questi anni il mio amico Raffaello Vignali con il bonus Stradivari, e il suo insegnamento anche nelle scuole superiori, proposta sulla quale insiste da tempo l’ex ministro dell’Istruzione, Luigi Berlinguer, e che io condivido.
La mamma di un nostro amico fa la centralinista in un’azienda statale e ci raccontava che sono in tre persone a fare il lavoro che potrebbe tranquillamente svolgere una sola persona, con il risultato di allungare i tempi delle operazioni. Perché avviene questo? Perché lo Stato (quindi le tasse dei cittadini) deve pagare tre stipendi al posto di uno? Perché una persona deve fare un lavoro inutile?
L’assistenzialismo di Stato è un vecchio male del nostro Paese. Per questo, oltre a eliminare quelle forme di assistenzialismo che voi denunciate, bisogna evitare di riproporlo sotto altre forme, come il reddito di cittadinanza: 800 euro al mese per non fare nulla. Dopo un po’ di mesi che una persona lo riceve, si sente inutile e ferita nella sua dignità; non ha bisogno di un reddito, ma di un lavoro. Io non devo finanziare la disoccupazione, ma l’occupazione. Devo aiutare chi crea lavoro. E il lavoro non lo dà lo Stato per decreto, ma lo creano le imprese. Allora devo incentivare fiscalmente chi fa ricerca, chi investe in innovazione, chi assume giovani e anche i cinquantenni che hanno perso lavoro e che hanno ancora un patrimonio di competenza e di energie da offrire alla collettività. Non spariranno domani i tre centralinisti, ma è questa la strada da imboccare: valorizzare chi fa.
Sempre la mamma del nostro amico ci raccontava che sta nascendo un’azienda di call center privata, ma la sede non sarà in Italia, bensì in un altro Paese, perché le tasse per le aziende in Italia sono troppo elevate. Non si possono aiutare le aziende che vogliono nascere così che non siano obbligate ad andare in altri Paesi?
Finalmente in Italia tutti i partiti (o quasi) si sono accorti che le tasse sono troppo alte, soprattutto per le imprese. Fino a pochi anni fa c’era chi teorizzava che “tassa è bello”. Ora, certamente le nostre imprese vanno messe in condizioni di poter competere allo stesso livello di quelle degli altri Paesi europei. Per farlo bisogna abbassare il costo del lavoro, intervenendo sul cosiddetto cuneo fiscale, in modo che ne abbia vantaggio l’azienda ma anche la busta paga del lavoratore. Per farlo bisogna trovare le risorse finanziarie, le cosiddette coperture, ma è anche vero che con queste operazioni (meno costi per l’impresa, più soldi in tasca alla gente) si movimenta l’economia e di conseguenza anche gli introiti fiscali. Vi faccio un esempio: il bonus fiscale del 50% o del 65% per le ristrutturazioni ha mosso 32 miliardi di euro all’anno e portato ogni anno 7 miliardi di Iva nelle casse dello Stato. Ma detto tutto questo, le prime cose che ci chiedono le imprese, e il motivo per cui molte scappano all’estero oltre al costo del lavoro, sono la burocrazia e la certezza del diritto. Bisogna semplificare le procedure e dare regole certe che non cambino ogni due mesi, in modo da attirare investitori stranieri in Italia (ce ne sono che vogliono venire) invece di far fuggire i nostri all’estero. Un’ultima osservazione: sui call center forse non potremo competere, per questo dobbiamo investire di più su tutto ciò che ha valore aggiunto in termini di innovazione e qualità.