Il modo con cui si è consumata l’illegittimità costituzionale del cosiddetto lodo Alfano pone un problema certamente inedito nell’impianto della forma di governo parlamentare del Paese; un problema la cui mancata soluzione è tale da condizionare la trasparenza, l’efficacia e l’effettività dell’indirizzo politico governativo, mettendone a repentaglio tanto l’opportunità politico-costituzionale, soggetta al sindacato parlamentare, quanto la stessa legittimità costituzionale, sottoposta al sindacato degli organi di garanzia a vario titolo coinvolti (presidente della Repubblica ed eventualmente Corte costituzionale). Esso si trascina in modo eclatante quantomeno dall’inizio della legislatura, anche se è stato ulteriormente amplificato dall’attenzione mediatica degli ultimi tempi, specialmente a seguito della diffusione delle argomentazioni rese dai difensori del presidente del Consiglio nel corso del giudizio di costituzionalità della legge in questione.
Si tratta di un problema di metodo istituzionale, che ha come oggetto le determinazioni politiche del Governo (disegni di legge, decreti legge etc.) ed ha come soggetto i consulenti del presidente del Consiglio, interessando, per l’appunto, il ruolo ed i limiti (deontologici, prima ancora che istituzionali) di costoro.
Per meglio comprendere il nocciolo del problema vale la pena partire da lontano. Ai tempi della “Prima repubblica”, incontrastata su tutte, vigeva la figura dei cosiddetti “professionisti della politica”. L’espressione, utilizzata successivamente in senso spregiativo, in realtà sottintendeva un metodo d’azione pienamente coerente con le esigenze della rappresentanza popolare e del controllo partitico e parlamentare. Essa non intendeva tanto legittimare la prassi (sfociata poi nel fenomeno di Tangentopoli) di far coincidere in via esclusiva l’acquisizione dei mezzi di sostentamento del singolo dalla gestione della cosa pubblica; piuttosto, era volta a rimarcare la specificità dell’azione politica, questa avendo come unico riferimento il corpo elettorale secondo le forme di aggregazione (partiti politici) e di rappresentanza (consigli comunali, provinciali, regionali, Parlamento) all’uopo istituiti. Indipendentemente dall’attività professionale originaria, dunque, l’attività politica svolta da ciascuno avrebbe dovuto conformarsi ai tempi, modi e contenuti dettati tanto dagli interessi dei rappresentati, quanto dalle regole istituzionali destinate ad assicurare il funzionamento dello Stato di diritto.
Tale demarcazione di metodo era talmente chiara, che i consulenti chiamati a portare la propria opera d’ingegno a sostegno delle iniziative di volta in volta promosse dagli organi esecutivi interessati, non oltrepassavano la propria soglia di competenza. Nel corso degli anni sono stati tanti i giuristi variamente coinvolti nella definizione delle riforme legislative ed amministrative di seguito realizzatesi. L’attività degli stessi, tuttavia, è sempre rimasta soggetta allo scrutinio politico degli organi di controllo; è sempre stata assunta in chiave funzionale, al fine di meglio conseguire gli obiettivi non già dettati dai medesimi consulenti, bensì prefissati in via politica. Gli stessi “tecnici” prestati alla politica non hanno mai potuto discostarsi da tale dinamica metodologica nell’esercizio della propria attività di governo.
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Non così nella “Seconda repubblica”. In questa ha preso il sopravvento una nuova ed inedita figura, che potrebbe definirsi come quella dei “professionisti nella politica”. Essa riguarda l’attività di tutti quei professionisti che continuano nella politica la propria attività professionale e che incrementano le proprie fonti di reddito per mezzo delle decisioni della politica; decisioni che, pertanto, essi mirano a condizionare, se non proprio a determinare in via diretta ed immediata. L’agenda politica degli organi esecutivi, in tal caso, non è più condizionata dalle esigenze e dai controlli politici richiamati, non è più definita in via politica; più semplicemente, è stabilita secondo le urgenze ed i contenuti autonomamente ed individualmente sanciti dagli stessi.
Nella confusione metodologica che viene a crearsi fra l’attività politica e l’attività professionale privata, di rimando, a venir meno sono i filtri ed i controlli tanto partitici, quanto politico-istituzionali. Una volta schiacciati dalle determinazioni del leader, suggestionato dalle indicazioni dei politici-consulenti coinvolti, i partiti ed i gruppi consiliari o parlamentari non riescono più a svolgere il proprio essenziale ruolo d’integrazione e controllo delle iniziative oramai verticisticamente assunte; ciò tanto più in ragione dell’eliminazione delle preferenze dal sistema elettorale, che impone che la ricandidatura del singolo rappresentante sia subordinata alla dimostrata accondiscendenza alla volontà del segretario di partito.
Orbene, proprio tale dinamica è emersa nella vicenda della costituzionalità del lodo Alfano. A sorprendere non sono tanto le bizzarrie giuridiche manifestate a piene mani dai difensori del presidente del Consiglio nel corso del giudizio di costituzionalità; meraviglia, piuttosto, che a sostenere la legittimità della legge in questione siano stati i medesimi consulenti che ne hanno suggerito l’adozione e dettato i tempi di redazione ed approvazione parlamentare. Coincidendo nella medesima persona il diverso ruolo di consulente giuridico, difensore personale e legislatore, si è così determinata una confusione metodologica fra attività privata e politica, che è andata a discapito di quest’ultima.
Il tutto, a ben vedere, ai danni del tessuto democratico e degli interessi dell’intero Paese. Per oltre un anno il dibattito nazionale è stato in gran parte assorbito da una soluzione normativa (il lodo Alfano), che già in fase parlamentare (nelle poche audizioni intercorse) era apparsa debole e problematica. Chi e perché non se ne è accorto?