Negli ultimi giorni, complici anche le promesse elettorali, si è riaperto il dibattito sullo sforamento del 3% del rapporto deficit/Pil che viene imposto dall’Europa. È un dibattito in cui si intrecciano moltissimi aspetti che bisognerebbe valutare separatamente. Il deficit su Pil al 3% intanto non è un numero magico dell’economia che rimane una scienza umana inesatta; è un numero completamente arbitrario che, come convenzione, è stato scelto. È un numero pensato, tra l’altro, quando l’economia tirava, c’era l’inflazione e non c’era stata una crisi globale di proporzioni enormi come quella del 2008 che ha profondamente cambiato tutto tranne che a Bruxelles.
Infatti, dal 2008 quella regola non è stata rispettata da nessuno; nessuno sa che esiste fuori dall’Europa, si pensi alle traiettorie di deficit e debito pubblico di Inghilterra, Stati Uniti e Giappone, e che anche dentro l’Europa qualcuno ha rispettato e qualcuno no. Chi l’ha rispettata soprattutto in contesti economici recessivi ha fatto molto peggio di chi l’ha rispettata. Le traiettorie degli indicatori di finanza pubblica di Francia e Italia si sono disallineati profondamente, in senso peggiorativo per l’Italia, proprio quando l’Italia applicava il 3% e l’austerity e la Francia se ne fregava.
Questo accade perché l’esempio stracitato da chi se ne intende per far capire a chi non se ne intende il problema – e cioè che anche quando una famiglia ha i debiti bisogna stringere la cinghia – è completamente sbagliato. Nel caso dello Stato la spesa è Pil mentre per una famiglia il reddito è una variabile esogena e indipendente dalle spese. Se lo Stato interrompe i progetti infrastrutturali il Pil scende. Se la domanda privata viene meno, per esempio per una crisi, lo Stato dovrebbe fare politiche anticicliche. È quello che è successo in tutte le economie sviluppate dal 2008 a oggi in cui i problemi “privati” sono stati curati a debito. La cosa incredibile, almeno per la narrazione italiana, è che a nessuno, “sui mercati”, è importato niente. Quello che abbiamo imparato è che quello che conta è preservare l’economia che è l’unico vero garante del debito. Anche un mutuo molto grande non è un problema nella misura in cui non si perde il posto di lavoro; invece anche l’acquisto a rate della televisione è un problema se il reddito scompare.
L’Italia è in avanzo primario da 27 anni; né la Francia, né la Germania vanno lontanamente vicino a questo primato. Nel frattempo l’Italia si è venduta tutto, erodendo il “patrimonio” pubblico, regalando enormi fortune ai privati. Dall’altra parte del confine abbiamo lo Stato francese primo azionista di Peugeot; la Germania che salva le sue banche a debito e dall’altra parte dell’Oceano un piano di stimoli fiscali con il debito oltre il 100% su Pil. Forse la narrazione a cui abbiamo creduto da decenni è discutibile e forse, compromettendo l’economia, perché la domanda pubblica è distrutta, si danneggia inevitabilmente anche il “debito”. Qualcuno si sarà interrogato sulle ragioni dei problemi delle nostre imprese di costruzioni: uniche in Europa, si sono trovate dall’oggi al domani senza mercato interno.
Facciamo finta però che la storia non esista e che certi vincoli non abbiano nulla a che fare con il declino italiano. Regioni dove la disoccupazione sfiora il 25% e quella giovanile il 60%, come la Calabria, non possono ripartire con il “privato” che non avrà mai interesse a investire visti i numeri. Anche per puntare sul turismo servono strade, ferrovie e aeroporti e magari anche una compagnia di bandiera; investimenti che nessun privato avrà mai voglia di fare a meno di rendimenti garantiti dallo Stato con soldi pubblici. Il motore di certe aree è in stallo e servono spinte esogene che non possono arrivare dal “mercato” in un mondo dove i concorrenti non solo non hanno mai smesso di investire, a debito, ma riducono anche le tasse. Il mercato in Grecia ha avuto il volto di svendite che non hanno creato un posto di lavoro.
Se passando dal 3% di deficit al 3,5% il Pil aumentasse, nessuno, sui mercati, si preoccuperebbe. I parametri di debito su Pil applicato a tutti indipendentemente dai risparmi privati è un altro mito folle che non spiega per esempio come mai il Giappone con il suo debito su Pil al 250% sia ancora vivo e molto più vegeto di noi. Se l’Italia è costretta a rispettare questo parametro anche in fasi recessive mentre il resto del mondo non lo rispetta l’unico epilogo è il fallimento. Perché si alimenta un circolo vizioso.
Oggi le alternative sono tre. Rispettare i vincoli europei e fallire, è solo una questione di tempo, come accaduto alla Grecia. Non rispettarli per pagare progetti strampalati, assunzioni pubbliche a caso e bonus a pioggia oppure non rispettarli per fare sviluppo, infrastrutture, e fabbriche. Con le prime due ci schiantiamo, con la terza si può pensare di invertire la rotta.