Egitto in fiamme per il terzo giorno consecutivo di scontri a una sola settimana dall’inizio delle elezioni generali del 28 novembre. Sono in tutto 42 i manifestanti uccisi dai proiettili d’arma da fuoco della polizia. Ieri sera il governo militare, presieduto da Essam Sharaf, ha rassegnato le dimissioni in seguito alla grave situazione che si era venuta a creare in tutto il Paese. Migliaia di egiziani si sono affollati in piazza Tahrir, mentre nella capitale scarseggiavano le bare e il sangue per le trasfusioni.
Ilsussidiario.net ha intervistato Hossam Mikawy, presidente del Tribunale Cairo Sud e osservatore designato in vista delle imminenti elezioni. Per il magistrato, “quanto sta avvenendo in queste ore nasce dal fatto che i Fratelli musulmani e gli altri partiti islamisti si sono alleati con il governo militare e gli esponenti del regime di Mubarak, consentendo a questi ultimi di partecipare alle elezioni. Il popolo egiziano lo ha compreso e, complice anche la mancanza di sicurezza nel Paese, in larga parte non andrà a votare, lasciando così a islamisti e conservatori la maggioranza dei seggi in Parlamento”.
Giudice Mikawy, perché domenica all’improvviso il sangue ha ripreso a scorrere in piazza Tahrir, tanto da costringere il premier egiziano alle dimissioni?
Le ragioni sono diverse. La prima è che, anche se Mubarak è stato deposto, il suo regime continua a esistere e a governare, controllando l’autorità dello Stato. In secondo luogo le prospettive per il futuro politico del Paese non sono chiare: manca una road map per l’Egitto. Terzo, la maggior parte degli egiziani a nove mesi dalla rivoluzione non vede dei cambiamenti significativi. Quarto, i partiti più potenti non hanno accettato i giovani nelle loro liste, lasciando i veri protagonisti della rivoluzione senza alcuna rappresentanza politica.
Quinto, i giovani sono continuamente accusati di tradimento da parte dell’Esercito e dell’ex primo ministro Essam Sharaf, e di essere dei miscredenti, in quanto sono liberali, da parte dei partiti religiosi. Quindi quanto è avvenuto tra domenica e ieri non soltanto uno scontro tra i giovani egiziani e gli agenti di polizia, ma tra la libertà e la sua negazione, tra l’educazione e l’ignoranza, tra la luce e il buio, tra il futuro e il passato.
Ma che senso ha scendere in piazza a protestare a una settimana esatta dalle prime elezioni democratiche nella storia dell’Egitto?
I partiti che prenderanno parte alle elezioni in questi mesi non hanno fatto altro che bussare alla porta del Consiglio Militare per avere la loro fetta di potere, dimenticandosi che la rivoluzione iniziata il 25 gennaio non è ancora terminata e che i suoi veri protagonisti sono stati i giovani. Quando però i partiti si sono resi conto che i militari non avrebbe concesso loro che una fetta sottile, venerdì scorso hanno fatto ritorno in piazza Tahrir. Il loro progetto era quello di organizzare l’ultima manifestazione da un milione di persone proprio nell’imminenza delle elezioni. E a che cosa è servito? A nulla, se non a cercare di dimostrare che i partiti sono potenti e rappresentano la rivoluzione.
Quindi che cosa è accaduto?
Venerdì la polizia non si è fatta vedere, come avviene ormai da nove mesi in tutto l’Egitto. Sabato però, dopo che tutti i partiti politici, i Fratelli musulmani e i salafiti hanno abbandonato piazza Tahrir, 33 giovani egiziani sono rimasti. Era una protesta abbastanza marginale, legata a motivazioni personali di questo gruppetto del tutto pacifico, e che non ha neppure provato a bloccare il traffico della piazza. All’improvviso però è scoppiato il finimondo. Dopo che per nove mesi, dall’inizio della rivoluzione, la polizia era del tutto scomparsa, gli agenti sono tornati nelle strade sparando su chi protestava e non lo hanno fatto per arrestare degli assassini o i “baltagiya”, le bande della malavita organizzata, ma contro dei giovani indifesi.
Dopo quanto avvenuto tra sabato e ieri, che cosa uscirà dalle urne delle elezioni di lunedì?
La principale sfida per il nostro Paese è quella di riuscire a tenere le elezioni parlamentari, qualunque sia il loro possibile esito. Attualmente però l’Alta Commissione Elettorale ha accettato che tutti gli esponenti del regime di Mubarak si ripresentassero alle elezioni, non più con il vecchio nome del partito, il National Democratic Party, ma nelle liste di Al Etehad (Egyptian Arab Union Party) e di Al-Moaten Al-Misri (Egyptian Citizen Party). Purtroppo non siamo riusciti a bloccarli. L’Esercito si è rifiutato di creare una legge per impedire a quanti erano compromessi con il regime di Mubarak di partecipare alle prossime elezioni.
E quindi che cosa accadrà?
Temiamo che il futuro Parlamento possa essere controllato da una “seconda generazione” di esponenti del regime di Mubarak. Il popolo egiziano ha compreso che i Fratelli musulmani, i salafiti e i conservatori conquisteranno la maggioranza, anche perché queste forze hanno siglato tra loro un’alleanza trasversale.
Lei avrà il compito di osservare che le elezioni si svolgano con regolarità. Quanto è elevato il rischio brogli?
Io sono fiducioso nel fatto che tutto avvenga in modo abbastanza trasparente. Purtroppo però sono moltissimi gli egiziani che hanno fatto sapere che non andranno a votare perché nel Paese manca chiarezza nelle regole sulle operazioni elettorali. Chi andrà a votare quindi? La stragrande maggioranza delle persone legate ai partiti islamisti e al regime di Mubarak. Ma nonostante questo, io ritengo che sia importante andare a votare anche soltanto per ottenere la minoranza.
Infatti, noi non sappiamo per quanti anni resterà in carica il futuro Parlamento: forse per un’ora, per un anno o per molti anni di seguito. Tutto dipenderà dal tempo che sarà impiegato a scrivere la nuova Costituzione. Quello che è certo però è che il nuovo Parlamento non potrà esprimere la fiducia al governo e, secondo quanto ha stabilito l’Esercito, non scriverà la Costituzione e non potrà eleggere la commissione che elaborerà la Carta fondamentale.
Quindi, chi scriverà la nuova Costituzione?
La nostra Costituzione provvisoria afferma che “dopo l’elezione del Parlamento, elaboreremo la Costituzione definitiva a partire dallo stesso Parlamento”. Ma l’interpretazione di questa norma non è chiara. Può significare che a scrivere la Costituzione saranno i membri del Parlamento, o che i deputati eleggeranno delle persone diverse da loro con questo compito, oppure che l’Esercito scriverà la Costituzione e il Parlamento si limiterà a svolgere un ruolo di osservatore.
(Pietro Vernizzi)