Non hanno vinto i talebani, ma neppure la democrazia. A poche ore da questa giornata trascorsa tra seggi e paure, la vecchia natura dell’Afghanistan riprende la supremazia. Un paese dove le donne in distretti come quello di Chakab trovano le porte chiuse, sbarrate dall’assenza di altre donne scrutatrici disposte a rischiare la vita per spostarsi dalle città a quelle campagne considerate, a torto o ragione, regno dei talebani. In quel seggio della provincia di Farah, dove si trova chi scrive, il mancato diritto non ha sollevato né sdegno né riprovazione, solo qualche alzata di spalle tra i pochi elettori convinti che in fondo non farà molta differenza.
Difficile dargli torto. Soprattutto se, alla resa dei conti, trovi 125 voti in una sezione con 600 iscritti o 20 in una da mille. Sono i numeri della democrazia rurale dell’Afghanistan, constatati ieri stando sul posto. Una democrazia dove i volantini attaccati alle moschee dai talebani e la minaccia di tagliare le dita sporche d’inchiostro bastano a desertificare le sezioni elettorali. E non certo perché il potere dei talebani sia assoluto o incontrastabile.
La grande paura degli insorti si è rivelata in questi giorni un autentico bluff. Dopo aver promesso di bloccare le strade e rendere inaccessibili i seggi, i talebani si sono dovuti limitare a compiere qualche attentato suicida nelle strade di Kabul o a lanciare qualche razzo da grande distanza. Insomma, dopo aver fatto credere di rappresentare un’autentica forza insurrezionale, sono ricorsi alla vecchia e logora arma del terrorismo, dimostrandosi incapaci di metter a segno autentiche operazioni militari, evidenziando le divisioni tra le fazioni “stragiste” fedeli ad Al Qaida e quelle nazionaliste pronte – in prospettiva – ad un negoziato con il governo.
A fronte di questa debolezza dello schieramento fondamentalista mancano ancora una forza di polizia e un esercito in grado di conquistarsi la fiducia della popolazione. Le operazioni di addestramento lanciate dalla Nato hanno sicuramente permesso di schierare unità meglio armate, ma non basta. La latitanza di un governo capace di dimenticare per mesi le paghe dei suoi agenti trasforma spesso la polizia in una forza ambigua e irresponsabile, capace la notte di ricattare o derubare gli stessi cittadini che di giorno pretende a parole di proteggere.
Di fronte a queste carenze è difficile chiedere atti di eroismo o cieca fiducia ad una popolazione prigioniera da 30 anni delle guerre e dei suoi signori. Signori pronti, grazie alle manovre elettorali del presidente Karzai, a ritornare al potere. L’apprendista stregone Karzai rischia però di scatenare forze incontrollabili. La paura delle regioni del sud e dell’est minacciate dai talebani rischia di sottrargli quei voti delle tribù pashtun indispensabili per superare la soglia del 50% e garantirsi la rielezione al primo turno.
Quel mancato traguardo e le sei settimane d’attesa prima del ballottaggio potrebbero scatenare disordini in grado di ridimensionare la sua autorità e il suo potere, spingendo alla diserzione molti suoi alleati comprati con il miraggio di cariche in cambio di voti. In quel caso lo sfidante Abdullah Abdullah, seppur figlio di madre tagika, seppur portabandiera di quella minoranza a cui i pashtun non accetteranno mai di sottomettersi, potrebbe riacquistare consensi e aggiungere al 25% che gli viene accreditato tutti i voti persi da Karzai. E allora per il presidente giocoliere potrebbe veramente aprirsi la resa dei conti.
L’anteprima ce la forniranno quest’oggi le prime percentuali ufficiali sulla partecipazione. Se scenderanno sotto il 60% il presidente dovrà incominciare a pensare seriamente ai rischi del ballottaggio.