Nonostante la passerella ateniese di nomi “pesanti” – Hollande, Moscovici e Schultz – e le promesse ricevute, nonostante il Parlamento abbia votato – di corsa – le altre misure richieste dall’Europa, ad Atene l’atmosfera è elettrica. L’ultima scossa è arrivata venerdì pomeriggio da Bruxelles: l’EuroWorkingGroup in cui si doveva parlare della situazione ellenica è stato rimandato. Troppi ancora i capitoli di incertezza. L’Ewg avrebbe dovuto esaminare gli aspetti “tecnici” per preparare l’Eurogruppo (si riunirà lunedì prossimo), il quale avrebbe dovuto dare il via libera all’arrivo di 2 miliardi verso le casse ateniesi.
I punti di discussione sono: la gestione dei crediti in rosso (Npl) che ammontano a circa il 43% dei crediti concessi dalle banche (dai 30-40 miliardi di cinque anni da agli attuali 107); la tassazione al 23% per le iscrizioni nelle scuole private (il governo si sta attivando, senza successo, per trovare i 300 milioni da altre fonti); infine la soglia oltre la quale si può pignorare la casa. E ancora non si hanno notizie certe sui 10 miliardi che l’Esm dovrebbe erogare ad Atene per la ricapitalizzazione delle banche. Gli altri 4,4 miliardi verranno coperti dagli azionisti.
In questo clima di incertezza sul futuro del sistema bancario, la scorsa settimana, il vice primo ministro, Yannis Dragasakis, ha affermato, in Parlamento, che si dovrebbero fondare nuove banche a base cooperativa che non siano sotto il controllo della Bce. Ottima idea, ma chi ha i fondi per nuovi e “indipendenti” istituti di credito? Neanche i numeri dicono che ci sono segni di miglioramento della situazione economica. La Grecia rimarrà in recessione fino alla fine del prossimo anno. Il Prodotto interno lordo del Paese diminuirà dell’1,3% dopo un calo dell’1,4% previsto per quest’anno. Nel 2017 dovrebbe segnare un rimbalzo del 2,7%. Queste le stime della Commissione europea per la Grecia nelle previsioni economiche d’autunno. Il rapporto fra debito pubblico e Pil salirà dal 194,8% del 2015 al 199,7% nel 2016, per poi scendere al 195,6% nel 2017.
Le misure di controllo dei capitali imposte prima dell’estate nel Paese mentre era in corso il braccio di ferro con i creditori internazionali “avranno un effetto duraturo sull’economia”, ma l’attuazione del programma del fondo salva-Stati Esm “permetterà un rimbalzo della fiducia e degli investimenti, con un impatto positivo sulla crescita e sul deficit pubblico”, che dovrebbe scendere sotto il 3% del Pil nel 2017. In ogni caso, si sottolinea dalla Commissione, “la mancanza di un’adeguata ricapitalizzazione del settore bancario entro i tempi previsti e della piena attuazione del programma di riforme minerà le prospettive di crescita”.
A queste notizie “indigeste” per il governo, che per il momento non ha altro lavoro da svolgere se non quello di spulciare i cataloghi delle voci su cui imporre nuove tasse, si aggiunge anche l’invito a prendere ulteriori misure per circa 2 miliardi allo scopo di raggiungere l’obiettivo dell’avanzo positivo dell’1,75% nel 2017. Che cosa significa? Che il governo deve trovare e poi votare altre misure entro la fine dell’anno. Sarà molto difficile che i nuovi tagli e i nuovi aggravi fiscali non creino turbolenza nella società, sempre più a secco di contanti.
L’altro giorno, la società pubblica di elettricità ha reso noto un dato allarmante: ammonta a 2,5 miliardi (le attività commerciali concorrono per 1,8 miliardi) il credito che essa ha verso i privati che non pagano la bolletta della luce – sono più di due milioni gli utenti insolventi. Ha minacciato di tagliare l’erogazione. Una buona percentuale del credito verso l’azienda è dovuto alle bollette del 2011 e 2012, quando – per ragioni di urgenza – il governo decise che la tassa sulla casa doveva essere inglobata nella bolletta bimestrale. Che poi la scomposizione delle diverse voci in essa contenute rivela che su 90 euro 57 sono il consumo di energia elettrica, tutto il resto sono tasse e gabelle varie, del tipo “tassa speciale per la riduzione dell’inquinamento” 14,18 euro (la produzione è ancora quasi tutta basata sulla lignite), “servizi di pubblica utilità” 4,15 euro (forse è il finanziamento al sindacato interno, un serbatoio di voti clientelari prima socialisti adesso per Syriza). E poi tasse comunali e rata del canone per la televisione di Stato.
La “pace sociale” del governo Tsipras II è terminata. Si stanno riempiendo le piazze e si stabiliscono date per sciopero. Prima i marittimi, poi sarà la volta degli agricoltori che per un paio di giorni taglieranno in due il Paese con i loro trattori. Manifestano contro l’aumento delle tasse per la loro categoria. Ma anche per loro i privilegi vengono aboliti. E il 12 novembre un inutile “sciopero generale” contro i tagli. Generale è una parola esagerata, in considerazione del fatto che i lavoratori del privato non ci saranno, troppo preoccupati a mantenere il proprio posto di lavoro. Dunque restano gli impiegati pubblici, quelli che hanno votato in massa Syriza. Movimento, oggi in piena crisi di identità politica, senza più alcun riferimento nel governo, il quale, a sua volta, continua nella sua polifonia e nei pruriti intellettuali dei suoi ministri.