“Il 2018 sarà l’anno dell’inizio della fine della transizione per la Libia”. Sono queste le parole che il ministro degli esteri Angelino Alfano ha rivolto all’omologo russo Sergej Lavrov durante il recente incontro A Mosca. Parole che fanno trapelare un certo ottimismo, forse un po’ anacronistico vista l’attuale situazione in cui versa il Paese. Se è vero che l’inviato dell’Onu per la Libia, Ghassan Salamé, con il sostegno di tutta la comunità internazionale, si sta impegnando da tempo per la messa in opera di un Action plan che dovrebbe portare a elezioni entro la fine dell’anno, è anche vero che mai come in questo momento la Libia sta vivendo una recrudescenza di violenze che non si vedeva da tempo.
Ripercorriamo solo gli eventi più recenti. Il 18 dicembre dello scorso anno è stato brutalmente assassinato il sindaco di Misurata, città nevralgica per gli equilibri del Paese. Non è stata mai fatta luce sugli autori dell’omicidio ma, secondo molti, si tratta di uomini vicini al Consiglio militare di Misurata, che lo accusavano di mantenere posizioni troppo moderate nei confronti delle forze del generale Khalifa Haftar. Pochi giorni dopo, il 15 gennaio per la precisione, si sono verificati dei violentissimi scontri nei pressi dell’aeroporto di Tripoli tra le forze di deterrenza Rada (milizie per il momento vicine a Fayez al-Serraj) e gruppi fedeli all’ex premier del Governo di salvezza nazionale Khalifa Ghwell. Sarebbero morte circa 20 persone. Neppure una settimana dopo a Bengasi, altra città importante e contesa, due autobombe hanno ucciso più di 30 persone, tra cui molti uomini di Haftar. L’augurio sarebbe quello di terminare qui questa macabra lista, ma le speranze si scontrano con la realtà dei fatti.
Perché questa nuova ondata di violenza? E’ plausibile ipotizzare che questo “fermento” tra milizie di diversa natura sia da addebitare proprio alle imminenti elezioni in vista delle quali ogni gruppo cerca di rivendicare il proprio potere — o di indebolire gli avversari — per dimostrare di essere un attore indispensabile e assicurarsi, dunque, un posto al sole nei futuri equilibri politici del Paese. Uno strano modo di fare campagna elettorale, verrebbe da dire con un po’ di amaro sarcasmo.
Viste da questa prospettiva, allora, le nuove elezioni politiche in Libia possono essere considerate la causa del deterioramento della situazione interna e non una possibile soluzione per il consolidamento di un nuovo status quo. Sarebbe necessario invertire la prospettiva: non elezioni per stabilizzare la Libia, ma tentare di stabilizzare la Libia prima di indire elezioni. Forse il discorso potrebbe apparire un po’ contorto o, per dirla con parole più semplici “un gatto che si morde la coda”. Tuttavia è evidente che in un contesto così frammentato e instabile, chiunque sarà il leader che uscirà vincitore dalla tornata elettorale — sia esso il generale Haftar o Saif al Islam (come da molti paventato) o una qualche coalizione di milizie e attori diversi — non sarà in grado di governare il Paese ma, anzi, potrebbe essere defenestrato, magari in maniera violenta, in poco tempo. E allora, per tornare alle parole del ministro Alfano, non sarà “l’inizio della fine della transizione per la Libia”, ma solo “l’inizio della fine per la Libia”.