A partire da martedì scorso, gli Stati Uniti hanno ritirato la disponibilità dei propri caccia per il proseguimento dei raid aerei in Libia. Allo stato attuale, quindi, il peso delle operazioni militari ricade sugli altri Stati partecipanti alla missione NATO “Unified Protector”, ovvero Francia, Gran Bretagna, Canada, Belgio, Olanda, Norvegia e Danimarca. La decisione annunciata dal Capitano Darryn James, portavoce del Dipartimento della Difesa statunitense, comporta il ritiro di ben 90 jet militari predisposti al bombardamento dei target al suolo, facendo scendere a soli 115 il totale delle forze aeree a disposizione dell’Alleanza Atlantica. Washington continuerà a mettere a disposizione esclusivamente i velivoli da guerra elettronica, sorveglianza, rifornimento, gli aerei radar Awacs e da operazioni psicologiche EC-130.
Nel frattempo, in Libia, l’avanzata dei ribelli si è nuovamente arrestata a Misurata, dove i lealisti di Gheddafi assediano la città. La situazione appare in stallo, ma a pagarne più duramente le conseguenze sono proprio i rivoltosi, allo stremo delle forze e con scarsissimi mezzi. Inoltre, lo scorso 5 aprile, il capo dell’esercito dei ribelli Abdel Fattah Younes ha polemizzato circa i gravi ritardi con cui avvengono i bombardamenti NATO sui target individuati dai ribelli, anche 7-8 ore dopo le segnalazioni. Intanto giungono nuove accuse di bombardamenti perpetrati da aerei britannici in violazione della Risoluzione ONU 1973: secondo un comunicato del viceministro degli Esteri, Khaled Kaim, sarebbero infatti stati bombardati i pozzi petroliferi di Sarir (presso Sirte) distruggendo l’oleodotto che lo collega al porto mediterraneo di Hariga, causando la perdita di tre guardie e ferendo i lavoratori del sito.
Le difficoltà incontrate dalla NATO nel perpetrare attacchi chirurgici, tesi a colpire esclusivamente obiettivi militari per assicurare l’incolumità degli insorti, rendono quindi estremamente vulnerabile la posizione dell’Alleanza Atlantica di fronte alle accuse di interpretare in modo “estensivo” la risoluzione ONU.
Accuse di cui si è fatta fino ad oggi portavoce l’Unione Africana, ago della bilancia nel difficile tentativo di giungere ad una soluzione diplomatica della vicenda libica. Il ritiro militare statunitense e lo stallo sul campo di battaglia sono la conferma di quanto già si sapeva all’avvio delle operazioni Odissey Down e Unified Protector. Innanzitutto, le attenzioni statunitensi non sono rivolte a Tripoli, bensì nel Golfo Persico: mercoledì scorso, all’indomani del ritiro del supporto statunitense ai bombardamenti, il Segretario alla Difesa statunitense Robert Gates si è immediatamente recato a Riyadh per un incontro con re Abdullah al fine di discutere di ciò che realmente “conta” per Washington, ovvero Bahrein, Arabia Saudita stessa e Yemen.
Una seconda considerazione trova conferma dalle recenti evoluzioni dello scenario libico, ovvero la consapevolezza che la “no fly zone” non potrà garantire la resa di Gheddafi. Gli sforzi per trovare una soluzione diplomatica che garantisca l’uscita di scena del Colonnello si vanno infatti intensificando, coinvolgendo diversi attori, dall’Unione Africana all’Europa, dalla Turchia alla stessa Libia.
Il Presidente dell’Unione Africana Jean Ping viaggia incessantemente di Paese in Paese per discutere di forme di cooperazione con Europa e NATO. Ping ha tuttavia dichiarato di non gradire come intermediario la Francia, sia per il suo aperto coinvolgimento nei fatti che stanno interessando la Costa d’Avorio, sia per il suo unilateralismo dimostrato in occasione del’avvio delle operazioni militari a Tripoli. E’ stato quindi avviato un panel africano composto da Mali, Sudafrica, Uganda, Congo e Mauritania per dialogare con Gheddafi in prospettiva di un suo possibile esilio. Iniziativa ben accolta soprattutto da Italia e Gran Bretagna, Paesi recentemente visitati dal presidente Ping.
L’impressione, tuttavia, è che sia proprio la Francia la più penalizzata nello scenario europeo e non solo nella ricerca di una soluzione non violenta in Libia. La ventilata proposta diplomatica anglo-francese, annunciata in occasione della Conferenza di Londra di settimana scorsa, sta via via lasciando spazio ad ipotesi ben diverse da parte di Parigi. In particolare negli ultimi giorni si parla sempre più insistentemente della possibilità di fornire armi ai ribelli della Cirenaica; proposta che ha recentemente ricevuto una parziale apertura anche da parte del Ministro degli esteri italiano Franco Frattini, più cauto invece su un eventuale contributo italiano all’addestramento militare dei rivoltosi, dati i trascorsi coloniali italiani nel Paese.
D’altra parte stanno lentamente emergendo interlocutori come la Turchia e il Qatar, caratterizzati da una politica estera dinamica a livello regionale. Sembra pertanto che il maggior insegnamento che l’Europa può trarre dalla guerra libica è che i tempi sono cambiati e che l’Unione Europea, così come strutturata oggi, appare inerme e goffa nel tentativo di dare efficacia al proprio peso politico al di fuori dei proprio confini. Inadeguatezza che deriva da quella dimostrata, prima ancora, dai singoli Stati membri. Il passo indietro di Washington può essere letto come un chiaro messaggio per Bruxelles formulato in due punti.
Da una parte, l’urgenza di dare nuovo vigore al processo di integrazione di Ankara nell’UE, la quale disporrebbe così di un vero “ponte” per instaurare un dialogo con la sponda mediorientale. Dall’altra la necessità di velocizzare lo sviluppo di una politica estera e di difesa comune. Ad imporlo, se non altro, sono aspetti di convenienza economica, oltre che politica, dato che i singoli Paesi europei non possono più permettersi di mantenere assets militari nazionali da impiegare prontamente su scala globale ad intervalli di pochi anni. A ciò si aggiungono le ricorrenti difficoltà di trovare soluzioni coerenti e di lungo periodo alle crisi in atto, come i casi di Iraq e Afganistan dimostrano, e che si stanno nuovamente manifestando in Nord Africa.
(Luca Gambardella – analista di Equilibri.net)