A Sirte le milizie di Misurata hanno espugnato l’ultima roccaforte dello stato islamico in Libia. In Siria si è da poco chiuso l’atto finale della terrificante guerra per il possesso di Aleppo. Nel frattempo anche a Mosul si combatte per cacciare i miliziani dell’Isis dalla terza più grande città dell’Iraq. Non ci si illuda, però, che una volta liberato il Medio Oriente e il Nord Africa dal nuovo “Grande Satana”, tutto tornerà come prima. Le guerre e gli sconvolgimenti, che negli ultimi cinque anni hanno travolto questa porzione di mondo, hanno decretato non solo la fine dell’era post-coloniale e degli Stati Nazione, nati dai confini ricavati artificialmente dalle potenze europee a cavallo della prima guerra mondiale, ma anche quella dei popoli, intesa come volontà di condividere una comunità politica e sociale.
La mancanza di identità nazionali radicate e la fine dei regimi che avevano contenuto con metodi dispotici le spinte centrifughe, hanno portato alla decomposizione delle identità all’interno dei confini statali e alla loro ricomposizione sulle linee pre-esistenti alla creazione degli Stati (tribù, regioni, clan, etnie, eccetera).
In Siria la fine della guerra, se e quando ciò avverrà, non ricomporrà i pezzi del mosaico, con o senza Bashar al Assad. Basta osservare una qualunque mappa dei gruppi presenti nel territorio per capire che, di fatto, esiste già una divisione “ufficiosa” tra l’est, l’ovest e una parte del nord del Paese. Probabilmente anche in Iraq, dopo un’eventuale vittoria sull’Isis, verrà il momento di stabilire una sorta di spartizione, che qui potrebbe essere ancora più dolorosa a causa della presenza di ingenti risorse energetiche. In Libia la recente sconfitta dello stato islamico non è il preludio per la ricostruzione di uno Stato unitario. Continuerà la presenza delle tribù e delle milizie locali, che oggi costituiscono uno degli elementi identificativi della popolazione, e continueranno le spinte “separatiste”, impegnate a creare entità autonome settarie, basate su rivendicazioni territoriali o di risorse.
Le potenze occidentali non possono considerarsi incolpevoli.
In Libia Gheddafi, seppure con metodi discutibili, aveva sfruttato la memoria coloniale per cercare di rinsaldare uno spirito nazionalistico, al posto delle “vecchie” tendenze tribali e regionali, ma queste sono state poi sfruttate dalla Francia di Sarkozy, e da altri attori regionali e internazionali, per sobillare la rivolta della Cirenaica contro Gheddafi.
In Iraq Saddam Hussein aveva faticosamente mascherato la natura del Paese, un precario college di gruppi etnici e religiosi, in cui solo la minoranza sunnita traeva vantaggio dall’esistenza di uno Stato centrale. Lo capì Bush senior quando, durante la prima guerra del Golfo, lasciò che le truppe americane punissero gli uomini di Saddam in ritirata, ma si fermò davanti alla liquidazione del regime, il cui crollo avrebbe avuto come diretta conseguenza la guerra per la spartizione dello Stato sconfitto. 13 anni dopo il figlio non fu così lungimirante. Fece fuori il dittatore e consegnò il Paese a Teheran.
In Siria gli Stati Uniti, già nel 2011, decisero di supportare la Turchia e le monarchie del Golfo contro gli sciiti. La Russia per salvaguardare le sue basi nel Mediterraneo, poi, si è alleata con Damasco e gli iraniani. Le “superpotenze” hanno così fomentato, manipolato e alimentato i revanscismi religiosi e settari per dare vita alla più grossa guerra per procura della storia recente.
Davanti a un tale scenario l’unica cosa da fare, oltre a prendere atto della realtà, è evitare di calare dall’alto nuovi confini artificiali destinati a riesplodere. Al massimo potremmo tentare di coinvolgere le istanze locali in un dialogo quanto più inclusivo possibile, tarato non sull’obiettivo dell’unità ma su quello della gestione delle risorse. Questo, ad esempio, potrebbe essere fatto in Libia, ora che Haftar sembra essere divenuto “l’uomo indispensabile” per i futuri assetti del Paese. Il governo italiano, di fatto l’ultimo attore internazionale ancora alleato con Tripoli, potrebbe utilizzare il capitale di fiducia che si è guadagnato in quest’area per favorire un dialogo quanto più inclusivo possibile tra alcuni gruppi tripolini e la compagine di Tobruk. Solo se vista da questa prospettiva, potremmo dire di non essere dalla parte sbagliata, come sostenuto da Haftar in una recente intervista sul Corriere della Sera. Fatto questo, però, non illudiamoci di ripristinare i “vecchi” Stati, se non nella finzione di qualche carta geografica.