Mentre i dati sull’inserimento lavorativo dei giovani in Italia continuano a peggiorare di mese in mese rilevando la crescita dei tassi di disoccupazione e soprattutto rilevando lo scoraggiamento che porta molti di loro (i cosiddetti Neet sono ormai oltre 2,5 milioni) a non cercare neppure un lavoro, le nostre istituzioni sembrano incapaci di affrontare il tema nella sua complessità.
Per farlo occorrerebbe prendere atto sul serio che i nostri problemi non sono legati, se non parzialmente, all’attuale congiuntura economica; le performances così radicalmente negative in termini di occupazione giovanile rispetto ai nostri competitors hanno origini strutturali.
Il più grave dei nostri problemi è un ritardo culturale, figlio di un’ideologia che ha attraversato gli ultimi decenni. L’idea che il percorso scolastico è per la promozione della persona e il lavoro invece (quasi) una necessità da sopportare, ha fatto sì che mai in Italia sia stata messa in campo una reale politica dell’alternanza scuola-lavoro (cosa che avviene in molti altri paesi europei). I giovani arrivano così a 18 o a 23-24 anni ad affacciarsi in un mondo che non conoscono e che li spaventa. Figlia della stessa cultura è la percezione negativa del lavoro manuale, quasi che esso fosse ancora il segno di una inferiorità di classe, un ambito da cui scappare attraverso l’ascensore sociale che è l’istruzione.
La conseguenza visibile (vedi recente indagine Mc Kinsey, Education to Employment, presentata a Bruxelles) è che mentre il 70% degli insegnanti ritiene che il percorso di studi sia abilitante al lavoro, lo pensa solo il 43% degli studenti e il 42% delle imprese. Mentre il lavoro scarseggia (dati Excelsior) ci sono decine di migliaia di posizioni aperte che le imprese faticano a coprire.
Per questa cultura la flessibilità non è mai buona o cattiva, ma sempre precariato. La cultura di noi padri genera così insicurezza, paura del rischio e vittimismo. Certo non ci sfugge che i problemi ci sono e sono reali, ma proprio per questo dovremmo sostenere e abilitare i nostri giovani alla battaglia che la competizione mondiale e la globalizzazione hanno portato inevitabilmente con sé. La realtà e il lavoro non sono nemici, ma possibilità di compimento e di crescita. Non si tratta di calpestare i diritti dei giovani, né di mortificare i percorsi della conoscenza e dell’acquisizione di competenze per fare un piacere alle imprese, ma piuttosto di abilitare i nostri giovani a una reale cittadinanza nel mondo in cui viviamo.
Ora l’atteso decreto attuativo della legge 128/2013 (“L’istruzione riparte”) sembra muoversi in una nuova direzione prevedendo “per il triennio 2014-2016. la stipulazione di contratti di apprendistato, con oneri a carico delle imprese interessate e senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica. Il decreto definisce la tipologia delle imprese che possono partecipare al programma, i loro requisiti, il contenuto delle convenzioni che devono essere concluse tra le istituzioni scolastiche e le imprese, i diritti degli studenti coinvolti, il numero minimo delle ore di didattica curriculare e i criteri per il riconoscimento dei crediti formativi“.
Ma ancora è possibile notare una serie di storture rilevanti.
Innanzitutto nel decreto non si fa riferimento a un mondo che più di altri in questi anni ha dimostrato di saper dialogare con le imprese, di formare ai vecchi e nuovi mestieri, di accompagnare i giovani nella fase di inserimento lavorativo anche attraverso l’innovazione delle attività laboratoriali (insufficientemente presenti nei percorsi scolastici, anche in quelli di natura tecnica e professionale) e la promozione di stage di diversi mesi. Si tratta della formazione professionale per i giovani tra i 14 e i 17 anni promossa dai centri di formazione professionale i cui risultati positivi sono ormai certificati da numerose indagini. È questo il fulcro intorno al quale costruire un vero sistema duale in Italia, dando cosi vita a un ordinamento i cui cardini risalgono ormai a 10 anni fa (legge 53/2003).
Ma anche restando alle sole istituzioni scolastiche non si capisce come l’onere di un rapporto che vuol essere a forte valenza formativa debba pesare sulle imprese senza oneri a carico della finanza pubblica. Se si tratta di un investimento per migliorare la qualità del capitale umano non si può scaricarne tutto il peso sull’impresa tra l’altro normando e burocratizzando tutto (requisiti, convenzioni, ore di didattica curriculare, etc).
È la radice dello stesso errore per cui in Italia non funziona l’apprendistato; troppa burocrazia, costi elevati per l’impresa, obbligo di assumere percentuali elevate alla fine del percorso a pena di essere esclusi dall’aprire nuovi contratti di apprendistato, etc.
Anche gli stessi stage e i tirocini curriculari devono essere modificati; non è alternanza fare uno stage in 5 anni di scuola per un mese; si tratta di un tempo in cui non è possibile avvicinarsi al mondo del lavoro e per le imprese ospitanti solo di un problema in più da gestire.
Insomma ci vuole una politica organica, e non interventi che appaiono quasi casuali (dagli incentivi a pioggia all’occupazione, alle troppo timide aperture sull’alternanza, a una definizione inadeguata dell’istituto dell’apprendistato, etc.)
Abbiamo oggi davanti una grande occasione rappresentata dalla definizione delle priorità con cui spendere le risorse del prossimo sessennio comunitario (2014-2020) e dall’attuazione di strumenti come la youth guarantee. Il rafforzamento delle politiche educative e dell’alternanza di tutto il sistema di IeFP (scuole e centri di formazione) deve essere uno dei cinque obiettivi prioritari scelti dal nostro Paese.
Facciamo questa scelta (Governo e Regioni insieme), incrementiamo l’alternanza nella formazione terziaria non accademica negli Its di recente istituzione, portiamo a compimento l’ordinamento della formazione professionale iniziale, spingiamo senza paura sull’alternanza all’interno del sistema scolastico, apriamo a un apprendistato che sia realmente un contratto a causa mista. Solo così i risultati arriveranno.