“Inasprire l’aliquota Iva dal 21 al 22% non soltanto taglierà le gambe alla ripresina, ma soprattutto aumenterà l’economia sommersa e non porterà alcun beneficio al gettito fiscale”. A esserne certo è Francesco Forte, economista ed ex ministro delle Finanze. Subito dopo l’accordo tra Pd e Pdl sull’abolizione dell’Imu per la prima casa, sono già riprese le polemiche. Stefano Fassina, viceministro dell’Economia del Pd, ha attaccato: “In una fase così difficile, dedicare un miliardo per eliminare l’Imu per meno del 10% degli immobili di maggior valore, ha sottratto preziose risorse per finanziare, per esempio, il rinvio dell’aumento dell’Iva”. A stretto giro la risposta di Berlusconi: l’Iva non va “assolutamente aumentata”, in quanto “non c’è sicurezza” che aumenti il gettito ed occorre un “alleggerimento” della pressione fiscale.
Perché Berlusconi dice no all’aumento dell’Iva, che è stato ideato dal suo stesso ex ministro Tremonti?
L’aumento dell’Iva è stato previsto da Giulio Tremonti come una clausola di salvaguardia. Il senso era che qualora non si fosse provveduto a togliere alcuni esoneri fiscali che sembravano ingiustificati, si sarebbe dovuto aumentare l’Iva. Faceva parte dello stile di Tremonti il fatto di ricorrere a questa sorta di aut aut.
Quale sarebbe l’impatto sui consumi di un aumento dell’Iva dal 21 al 22%?
L’aumento dell’Iva è in quanto tale un fatto aberrante, che è stato concepito in un periodo di recessione e che rischia di entrare in vigore in una fase di timida ripresa. Nei bollettini si legge che la fiducia dei consumatori è in crescita, e naturalmente anche lo sgravio dell’Imu per quanto si faccia di tutto per creare incertezza può spingere questa fiducia. Un aumento dell’Iva stroncherebbe però il principio di ripresa e allargherebbe i confini dell’economia sommersa.
Per quale motivo ritiene che l’imposta sui consumi favorisca l’evasione fiscale?
Non va dimenticato che la riduzione dell’occupazione e del Pil che si registra nel Mezzogiorno deriva in larga parte dal fatto che l’attuale aliquota Iva al 21% rappresenta un peso notevole. Per il reddito di un’impresa che fatica a quadrare i bilanci, vendere in nero senza dovere pagare l’Iva è ciò che consente di raggiungere il pareggio. Un ulteriore aumento rappresenta quindi un invito all’evasione portando così a una riduzione del gettito anziché a un suo incremento. Quest’anno inoltre il gettito fiscale complessivo è aumentato mentre quello dell’Iva è diminuito. E’ possibile che una concausa sia una tendenza da parte dei consumatori a spendere meno, ma ad avere inciso negativamente è stato anche l’incremento dell’aliquota.
Per Fassina però dopo l’abolizione dell’Imu sulla prima casa è necessario trovare nuovo gettito…
L’Iva al 22% però non soltanto soffocherebbe ulteriormente i consumi, ma soprattutto non fornirebbe alcun gettito aggiuntivo, anzi peggiorerebbe il bilancio dello Stato. L’idea di alcuni è che si debba aumentare l’Iva e ridurre altre imposte per accrescere la competitività dell’Italia nei confronti di altri Paesi, in quanto l’Iva all’esportazione si rimborsa mentre quella all’importazione si paga. Si tratta però di un’arma a doppio taglio, perché più aumenta questo tributo più si crea un rincaro della vita.
Con quali conseguenze?
L’effetto è quello di ridurre il potere d’acquisto dei consumatori e di portare alla richiesta di aumentare le retribuzioni. Le imposte generali sui consumi si trasferiscono dal venditore all’acquirente, facendo rincarare i prezzi interni e annullando questo presunto vantaggio. Va quindi assolutamente evitato qualsiasi aumento dell’Iva, che vale soltanto 4 miliardi e che è un’extrema ratio da sostituire con decise sforbiciate ai 200 miliardi di esoneri fiscali spesso arbitrari.
Peccato però che ancora nessuno sia stato in grado di fare un esempio concreto su come tagliare le agevolazioni fiscali…
Glielo faccio io. Il giudice della Cassazione, Antonio Esposito, che ha firmato la condanna di Berlusconi per il caso Mediaset, è stato per esempio pagato da una scuola “senza scopo di lucro” nei cui confronti avrebbe svolto un ruolo direttivo. Parlare però di scuola non profit in questi casi è soltanto un trucco per non pagare le imposte, in quanto non svolge nessun attività benefica come fanno altri istituti di formazione privati. Ma non si tratta di un caso isolato, in quanto esiste una enorme quantità di benefici fiscali per chi non se li merita.
Quali in particolare?
Quando ero ministro delle Finanze mi accadde persino di scoprire che il bar della Guardia di finanza era una non profit. Si tratta di un fatto paradossale, per indicare che anche un’impresa dedita alla vendita di bevande spesso finisce per pretendere di beneficiare di questi sgravi fiscali.
(Pietro Vernizzi)