Anche con i rubinetti del bagno si può fare business di alta qualità, “made in Italy”, naturalmente. È in fondo questo che insegna un’azienda di Prato, la Pietro Signorini e figli nata nel 1923, 50 dipendenti. Accessori per bagno, rubinetterie di ogni tipo, di ogni forma, dimensione e stile, che si accompagnano a un arredamento molto curato e allo stesso tempo funzionale. Questa azienda si è associata da poco a FederlegnoArredo e ha partecipato recentemente alla missione a Beirut, in Libano, per esplorare i mercati esteri e sapersi collocare, con innovazioni continue, sul mercato globale. Nel momento in cui la domanda interna italiana, ma anche quella europea, è scesa, se non crollata, a queste piccole e medie aziende attivissime, vivacissime, si è aperta la porta dei mercati esteri, dei Paesi in via di sviluppo, di quelli emergenti e pronti a consumare come si faceva da noi negli anni Sessanta e Settanta. Il motto di tutti è “riprendere la valigia in mano e cominciare a pedalare”. È una grande tradizione del lavoro tutta italiana. Non solo la capacità di creare manufatti di arredamento di primissima qualità, che tutti ci invidiano e che cercano di copiare, ma anche la forza di adattarsi alle nuove frontiere del mercato. Insomma, a non tirarsi indietro di fronte a una sfida, una grande scommessa che si gioca sul mercato di tutto il mondo. Enrico Usai è il Direttore export della Pietro Signorini e figli. È una di quelle persone che questa scommessa sul mercato globale l’ha raccolta e che cerca di vincerla.
Da quando avete deciso questa nuova strategia aziendale, quella di andare sui mercati esteri?
Da circa due anni. Al momento abbiamo un rapporto ancora basso di export: il 20% rispetto all’80% del mercato interno. Ma il nostro obiettivo è di raggiungere al più presto possibile un cinquanta e cinquanta.
Questo mutamento di strategia è un fatto contingente, legato alla drammatica attualità della crisi europea, al crollo della domanda interna italiana, alla difficoltà degli altri mercati europei?
Nel cambio di strategia della nostra azienda c’è tutto quello che mi domanda. Ma non è un calcolo che si può definire congiunturale o meglio legato a questa fase di crisi, di caduta della domanda interna italiana. In realtà, noi siamo in un settore che è legato all’arredamento di case e qui ormai l’edilizia, la costruzione di case è bloccata. Non si costruisce più nulla e non pare che nei prossimi anni ci siano previsioni che possano invertire questo trend. In alcuni paesi europei c’è qualche cosa di più, ma sostanzialmente non è più questa l’area dove si vede uno sviluppo di crescita, per diversi motivi.
Quali ad esempio?
Nuovi paesi che consumano, paesi popolati da giovani, dove c’è un autentico boom demografico. La differenza di espansione economica tra questi paesi e il nostro, oggi, è già impressionante.
Anche lei è stato a Beirut, con la missione promossa da FederlegnoArredo?
Sì, c’ero anch’io ed è stata un’iniziativa molto utile. Quella è la porta del Medio Oriente, dove noi siamo già presenti. Ci siamo anche spinti nell’Estremo Oriente, in Corea ad esempio. Non abbiamo toccato, al momento, la Cina e nemmeno i paesi del Nord Africa. Ma è inevitabile pensare di farlo.
I costi che dovete affrontare per cercare ordini sul mercato globale sono alti?
Faccia conto che per realizzare una simile strategia basata sull’export, ci vogliono viaggi, contatti, un marketing accurato, pubblicità, consulenze. Noi ci investiamo ben il 4% del nostro fatturato. E sappiamo benissimo che dobbiamo muoverci da soli, perché sostegni di istituzioni statali italiane all’estero ce ne sono poche. Ecco perché l’iniziativa di FederlegnoArredo è stata importante per tante piccole e medie imprese legate all’arredamento, all’industria del legno e a un’impresa come la nostra.
Ritorniamo per un attimo al mercato interno. Quali sono i problemi maggiori?
Ormai è come recitare una litania e lei li saprà benissimo: rapporto con le banche, una pressione fiscale troppo alta e la domanda interna bloccata. In più gli “insoluti”, cioè la difficoltà di pagare che hanno ormai molte aziende. Non abbiamo nessun problema con il settore pubblico, quello dello Stato e delle amministrazioni locali, perché non ci lavoriamo. Ma guardi che ormai certe aziende private pagano anche a trecento giorni.
Quando si parla della situazione italiana, della crisi, per le Pmi sembra non esserci più speranza.
No, non voglio dire questo e la speranza è l’ultima a morire. Ma il momento attuale e, credo, i punti di sviluppo del futuro ci impongono, per tenere vive e in forma le nostre imprese, di mutare strategie, di guardare soprattutto all’export. Ci siamo tutti nel mercato globale, quindi cerchiamo di navigare bene in questo oceano.
(Gianluigi Da Rold)