Poco tempo fa mia madre mi ha raccontato un episodio delle mia infanzia che ha illuminato il ricordo di mio padre. Parlavamo di quanto costi oggi il latte in polvere: discussioni sotto l’ombrellone con neomamme affannate tra pannolini e vitamine, preoccupate dal carovita e dalla deflazione, ma soprattutto dal rientro autunnale e dal listino della spesa.
Così, volendo dimostrare che le cose non sono poi cambiate molto da 40 anni a questa parte, con la vis polemica che la contraddistingue, sosteneva che già qualche decennio fa il latte artificiale per neonati aveva prezzi proibitivi e, a riprova della sua tesi, citava non dati comparativi ma il fatto che allora mio padre quando andava in farmacia, oltre a comprare la dose necessaria alla sua prole, nella fattispecie mia sorella (era lei l’incontentabile mangiona all’epoca, insaziabile con il pur abbondante latte materno), lasciava “pagata” anche un’altra confezione, avendo saputo dal buon speziale che nel quartiere c’era un’altro papà che spesso e volentieri questuava confezioni omaggio.
Così il mio babbo oltre a zittire il pianto della sua seconda figlia portava consolazione anche in un’altra famiglia, che non ha mai conosciuto. E sì che i miei erano in una città che non gli apparteneva, giovane coppia senza molti quattrini, con una casa e una stabilità ancora tutta da costruire. La cosa che mi ha colpito non è stata la generosità di mio padre, la sua bontà silenziosa, che ho potuto conoscere e sperimentare negli anni vissuti insieme, ma la circostanza per cui mia madre si era sentita in dovere di tacere su un fatto che oltre a confermare la quotidiana tensione alla santità di certi uomini racconta molto del tessuto sociale e umano del nostro paese.
Quando, sorpresa, le ho chiesto perché non mi avesse mai detto di questo piccolo episodio, ha ribaltato infastidita la questione chiedendomi se io, da figlia, non conoscessi mio padre. Aveva ragione: non c’era solo la discrezione della carità nell’atto compiuto dal mio babbo, ma l’abitudine al “bene” che io avevo respirato crescendo accanto a lui. E gli impulsi di generosità, scriteriata e inopportuna, che a volte mi caratterizzano credo abbiano a che fare, molto o tutto, con l’educazione ricevuta in famiglia.
Ieri Papa Francesco lo ha confermato. Parlava all’udienza generale, ancora una volta, della Chiesa-Madre, di quell’attenzione ecclesiale, ricevuta e accolta in un luogo fisico e spirituale, che ci indica la strada della salvezza e difende dal male. Nella sua catechesi ha affrontato il tema delle opere di Misericordia, espressione dell’essenziale del Vangelo. E fedele all’idea che la Chiesa non fa lezioni teoriche sull’amore ma lo testimonia e lo vive, faceva l’esempio di una mamma di sua conoscenza che aveva insegnato ai figli la verità del comandamento evengelico sul dare da bere e da mangiare a chi ha fame e sete, invitandoli a dividere il loro pasto, bistecca e patatine, con un povero di passaggio.
Una bella storia che mi ha ricordato mio padre, e il dare non ciò che avanza (sarebbe troppo facile), ma ciò che è necessario all’altro. La fede e l’amore non sono astrattezze, materia per buone discussioni, ma sostanza di vita, “consuetudine”. Come il bene e il male, non topos filosofici, ma spazi di azione. La Chiesa, soprattutto quella domestica, la famiglia, sono i luoghi dell’incarnazione, dove si comprende sulla pelle il “siate misericordiosi come il Padre nostro è misericordioso”(Lc 6,36). E c’è da chiedersi cosa è accaduto negli ultimi anni se oggi molti bambini non conoscono né gratuitudine nè tanto meno l’abitudine alla condivisione.
Il fatto è che non è una lezione civica, la trasmissioni di valori, la coltivazione di più o meno accentuate attitudini a fare un uomo buono, neanche la fortunata combinazione genetica (qualcuno visti i tempi potrebbe pensare a creare l’homus bonus) ma la partecipazione ad una vita di amore. E’ l’essere oggetto di misericordia che rende misericordiosi, il riconoscimento di un bene ricevuto che porta a donare, la certezza di un amore infinito che “converte” l’istintuale animo umano. Abbiamo bisogno di qualcuno che ci ricordi l’essenziale per non perdersi in dettagli e “trasmettere ciò che veramente conta”, il “senso e la gioia di vivere”. Sempre ieri, infatti, Bergoglio spiegava che la Misericordia rigenera, per questo “visitare” i carcerati, portare consolazione agli afflitti, genera persone “nuove”.
E’ stato commovente come ha ricordato la figura e i gesti di una grande Santa dei nostri tempi, Madre Teresa di Calcutta, diventata, anche in ambito laico, sinonimo di bontà senza misura. Bergoglio l’ha ricordata nella sua impotenza, nella raccolta che faceva per le strade della metropoli indiana di moribondi abbandonati sui marciapiedi alla furia dei topi. Uomini sulla soglia della morte che lei accompagnava senza pretese all’incontro con il Mistero, restituendogli negli ultimi istanti di vita una dignità che forse non avevano mai avuto. Ecco, i cristiani sono questo. Gente che regala un litro di latte o chiude gli occhi a chi era destinato a morire solo. Non teorici dell’amore, ma operai della Misericordia.