L’espressione risale a Platone, che nel Fedone aveva parlato del “bel rischio” di credere nella sorte immortale delle nostre anime. Gert J.J. Biesta l’ha applicata all’educazione, nel volume di qualche anno fa dal titolo The beautiful risk of education. Il quale ne richiama un altro, noto al lettore italiano, ma non al pedagogista olandese, di Luigi Giussani (Il rischio educativo). Ma perché l’educazione è un rischio, anzi un “bel rischio”? 

L’aggettivo rafforza l’idea della convenienza o dell’esito positivo che può avere il rischiare: si ottiene qualcosa che, senza rischio, rimarrebbe perduto. Come in montagna, su un sentiero di alta quota, in un passaggio difficile, quando c’è da fare un salto, solo chi rischia va avanti, chi invece non rischia torna indietro. 

Il rischio è anche un pericolo, e difatti il termine usato da Platone (κίνδυνος), nella lingua greca, ha entrambi i significati. Educare è un rischio ed è anche un pericolo: si può sbagliare, fallire, far disastri e doverne scontare le conseguenze. Molti preferiscono “tornare indietro”, per non rischiare di cadere. Oppure, fuor di metafora, programmare, pianificare, controllare, assicurare il percorso educativo con funzionali strumenti, solide istituzioni, analitici progetti, ove i passi da fare e l’esito finale è anticipatamente conosciuto e stabilito. Se in molti settori della vita ciò è indubbiamente ammissibile e necessario – nel campo ingegneristico, ad esempio, o in quello economico (anche se qui le predittività non è più così sicura come un tempo), un po’ meno in quello medico (ove l’imprevisto non è da escludere) e, in generale, in quello della ricerca (se è autentica, non necessariamente si deve trovare quel che si cercava) -, c’è da chiedersi se la garanzia e la sicurezza offerte da strutture e agenti esteriori siano applicabili anche all’educazione.

Il problema merita di essere preso in considerazione, soprattutto per le due estreme soluzioni che potrebbe avere: quella, appunto, di un rigido sistema educativo, minuziosamente programmato e definito, e, all’opposto, quella delle “mani in tasca e vediamo che cosa succede in quest’ora”, come qualcuno, provocatoriamente, ha suggerito. Forse il rischio, nell’educazione, sta da un’altra parte, non nelle forme di strutture o di comportamenti. È anzitutto il rischio che deve correre una società adulta nell’interrogare se stessa e nel rimettersi in gioco nel comunicarsi ed entrare in rapporto con le giovani generazioni. 

L’educazione misura sempre il valore e la consistenza dell’adulto, che è tale perché ha un senso della vita che è disposto a mettere in gioco con altri, non per dubitarne, ma per comprenderne e verificarne la portata. Addirittura le civiltà ne sono interessate, perché esse finiscono quando i valori per cui sono nate non sono più attuali, o non sono più vissuti come tali. Inoltre, il bel rischio dell’educazione è tale perché ha a che fare con l’esperienza umana, che è quanto di più difficile da fare in un’epoca di sperimentalisti e di narratori dell’umano. 

L’esordio con cui Giorgio Agamben apriva il suo libro Infanzia e storia, conserva, ad anni di distanza, tutta la sua provocante attualità. “Ogni discorso sull’esperienza deve oggi partire dalla constatazione che essa non è più qualcosa che ci sia ancora dato di fare”. L’espropriazione dell’esperienza, per l’uomo contemporaneo, è il muro che si erge dinanzi al suo tentativo di entrare in rapporto con la vita e con il mondo, e ne causa gran parte degli insuccessi. Se il termine dell’educazione non è lo Stato, la società, la famiglia, la cultura, neppure l’insegnante o il maestro, ma è la realtà – questo è ciò che può rendere l’uomo libero -, entrare nella realtà, essere “introdotti nella realtà totale”, secondo la celebre e feconda idea di Luigi Giussani, non è come entrare in una stanza, avere relazioni, far uso di utensili e strumenti, ma significa entrare nell’esperienza della realtà, nell’esperienza di sé nel mondo, in ciò che sta prima o al di là delle parole e del linguaggio, e che le parole e il linguaggio servono a far diventare cosciente. 

In terzo luogo, la conoscenza stessa, quindi l’insegnamento e l’apprendimento, è un rischio, perché esplora l’ignoto, delinea il passaggio da ciò che si sa a ciò che non si sa, introduce in un mondo di cui non si conoscono, ancora, le sembianze. Anche se l’uomo anela a conoscerlo, l’ignoto incute timore e può respingere o rendere insicuri. Leggere, scrivere, calcolare, interpretare i fenomeni, conservare e vivificare la memoria, fare scoperte, elaborare teorie, ed altro ancora che riguardi la conoscenza umana, sono i segni del rischio che occorre assumersi nella conoscenza, dai primi gradini fino ai più alti gradi. Ed è questione che riguarda l’insegnamento, che non può disgiungersi dalla scoperta personale che ognuno, maestro o discepolo, è chiamato a fare.

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