In molti lo ricordano come l’uomo con i baffi che sedeva in panchina, team manager di un Milan che ha vinto tutto quello che poteva vincere. In molti lo ricordano anche perché, da direttore sportivo del Perugia sul finire degli anni Settanta, seppe strappare Paolo Rossi alla Juventus e contribuì a creare il cosiddetto Perugia dei miracoli. In molti ancora lo ricordano agli inizi della sua giovane carriera dirigenziale quando nella sua città natale (Città di Castello) passò, appena ventitreenne, dalla scrivania di segretario a quella di direttore sportivo.
Città di Castello, Cesena, Perugia e Milan dove per lui fu coniato il ruolo di team manager: quattro squadre con quattro diverse storie da raccontare. Oggi, a 70 anni compiuti, Silvano Ramaccioni è per tutti il modello ideale di trait d’union tra squadra e allenatore. La scorsa estate ha lasciato, dopo 26 anni, il ruolo di tem manager a Vittorio Mentana ed è diventato addetto agli arbitri in Italia nelle partite interne del Milan. Lontano dai riflettori del mondo del pallone, apre, in esclusiva per ilsussidiario.net, il cassetto dei ricordi, anche se non vuole essere accusato di essere un nostalgico, per far posto alle emozioni vissute e agli incontri con persone speciali. Per tutti c’è un sentimento di stima incondizionata che si ripete in più passaggi: il dott. Galliani, il dott. Berlusconi… C’è tempo sul finire della conversazione anche per analizzare il presente e il futuro del calcio e del Milan stesso con un appello ai tifosi.
Dove ha mosso i primi passi da dirigente Silvano Ramaccioni?
Ho iniziato a Città di Castello nel 1962-63. Avevo 23 anni ed ero il segretario della squadra, quasi per gioco mi sono ritrovato a seguire direttamente sul campo la locale squadra che militava in serie D. Ebbi poi la fortuna di essere chiamato dal Cesena del compianto presidente Dino Manuzzi e così in poco tempo passai dalla quarta serie alla serie A. Dopo un anno mi cercarono alcuni conterranei per andare a Perugia con il presidente Franco D’Attoma.
Perugia fu il trampolino di lancio per la sua carriera?
Senza dubbio. Lì feci 8 stagioni, una più bella dell’altra. Nel 1974 arrivammo insieme io e Castagner come allenatore. Il Perugia dei miracoli fu merito dell’allenatore, dei dirigenti e dei giocatori: ebbi la fortuna di scegliere giocatori con qualità tecniche ma anche umane.
Qual è il ricordo più bello che porta con sé dall’esperienza di Perugia?
Il campionato che chiudemmo al secondo posto senza sconfitte (stagione 1978-1979, ndr). E’ la vittoria più bella perché vale più di uno scudetto: si tratta di un record che non si può superare, al massimo si può eguagliare.
Vi riuscì anche con il Milan di Capello?
Sì, ma i campionati non sono paragonabili. Quello di Perugia era un campionato a 16 squadre. Nel periodo di Perugia arrivarono molte richieste… A Perugia avevamo gli occhi addosso di tutte le squadre. Potevo andare al Napoli o alla Roma. Poi successe lo scandalo legato alle scommesse, una cosa un po’ insolita per una città che non aveva neanche una sala corse.
Si sentì tradito dai suoi giocatori?
A distanza di anni posso arrivare a dire che, forse, qualcuno ha pagato meno. Resto convinto oggi come allora che Paolo Rossi non c’entrava nulla. Forse, visto che vedeva Perugia come una tappa di transito, ha valutato con leggerezza alcune voci che aveva sentito.
Dal Perugia al Milan, un altro passaggio decisivo nel suo curriculum…
Nel maggio del 1982, a 43 anni, ho accettato di andare al Milan, che stava lottando per non retrocedere (poi retrocesse, ndr). Con la presidenza Farina ripartimmo dalla serie B. In panchina chiamai Ilario Castagner, che con un grande campionato ci riportò subito in serie A.
La presidenza Farina si concluse male…
Farina non poteva reggere economicamente le naturali ambizioni, quando sono venuti meno i soci si è trovato in crisi. La tradizione sportiva l’ha dipinto come un presidente terribile, ma se avesse voluto sopravvivere avrebbe potuto mettere sul mercato tutti i pezzi più pregiati. Alla fine decise di non farlo. Fu una sconfitta per Farina, ma non per il Milan che riuscì a tenere i migliori.
Poi arrivò nel 1986 l’era Berlusconi…
Sì, i primi due anni rimasi come direttore sportivo insieme ad Ariedo Braida. All’inizio della terza stagione il presidente decise di avere ruoli più precisi e coniò per il sottoscritto la qualifica di team manager. Come carattere mi ritrovavo appieno nel nuovo ruolo: ero sempre stato, fin dagli inizi, vicino all’allenatore e alla squadra.
Al Milan ha vinto tutto quello che poteva vincere. C’è qualcosa di indelebile anche a distanza di anni?
I ricordi sono montagne. Ho vinto molto tra Campionati, Coppe Campioni e Intercontinentali. Per uno che ama il calcio solo il pensiero di questi successi dà emozione. La partita perfetta è stata quella di Atene del 4 a 0 sul Barcellona. Eravamo dati per spacciati, ma senza gli squalificati Baresi e Costacurta vincemmo contro ogni pronostico. Ricordo volentieri anche il primo scudetto con Sacchi quando il 1° maggio 1988 vinciamo al San Paolo 3 a 2 contro il Napoli (la gara del sorpasso, ndr) davanti a 80mila spettatori che ci applaudono.
Al Milan ha seguito da vicino 10 allenatori. Con quale ha instaurato un rapporto migliore?
Ho lavorato bene con tutti.
Provo a farle alcuni nomi: Liedholm, Sacchi e Capello….
Liedholm era un leader non solo per il carisma, ma anche per l’ironia che metteva nell’affrontare ogni giornata. L’esperienza con Sacchi fu fulminante in senso positivo. Con Capello ho sviluppato, forse, un rapporto più profondo perché ci univano alcuni aspetti (la passione per la caccia o nell’ambito del calcio per le tournée): con il Milan di Capello abbiamo fatto più volte il giro del mondo (Cina, Australia, Messico, Stati Uniti, Indonesia, solo per citarne alcuni). Anche con Zaccheroni, che vinse lo scudetto al primo anno, mi sono trovato molto bene. Tabarez e Terim, pur essendo grandissimi professionisti, furono meno fortunati perché non trovarono la continuità di risultati e il cemento vero con i vertici societari. Con Carlo (Ancelotti, ndr) in 8 anni abbiamo raggiunto risultati eccezionali. Con un presidente come Berlusconi e con grandissimi allenatori era tutto più facile. Se poi a questi si aggiunge il gruppo storico (Baresi, Tassotti, Galli, Maldini, i 3 olandesi, per citarne alcuni), i ricordi mettono quasi paura.
Sul piano umano c’è qualche giocatore che l’ha colpita in positivo?
Filippo Galli non era un primo attore ma era un uomo. Potrei dire che Galli e Albertini erano sensibili anche a ciò che succedeva fuori dal rettangolo di gioco.
Dal punto di vista sportivo c’è qualche giocatore che non ha reso secondo le aspettative?
Abbiamo avuto tante aspettative (ma era più un sogno che altro) per giocatori di grandissima qualità che sono arrivati a Milano a fine carriera. Penso a Redondo e Rivaldo, che non erano più nel pieno della loro forza fisica. Lo stesso Ronaldo nelle poche occasioni che ha avuto al Milan ha dimostrato di essere uno dei più forti al mondo. Tutti gli elogi guadagnati nel periodo all’Inter erano meritati: in allenamento gli ho visto fare delle cose spaventose dal punto di vista tecnico. Lo colloco fra i più grandi, vicino a Pelè e a Maradona.
Cosa ha imparato dal mondo del calcio?
Spesso il calcio riesce ad essere una maschera per altri problemi, una specie di scatola dorata che non ti permette di vedere cosa succede attorno. Dei movimenti del 1968 mi accorsi, ad esempio, quando ormai erano passati.
Lei non ama guardare indietro, cosa vede nel futuro del calcio?
Si parla molto anche degli acquisti a cifre esorbitanti del Real… Il mondo del pallone è diventato difficile. Il dio denaro è una potenza assoluta. I segreti vincenti di questo sport sono sempre stati l’agonismo, i colori della bandiera, cose che ormai sono sfumate… Oggi se un Paese non ha la possibilità di organizzarsi con stadi attrezzati, perde la capacità di competizione. Da una parte c’è l’Uefa che vuole aiutare le Federazioni più deboli e le società, dall’altra il denaro. Il gioco del calcio seguiterà ad affascinare, ma non vorrei che fosse falsato.
E del futuro Milan cosa pensa?
Sarei preoccupato se Berlusconi fosse intenzionato a vendere, ma so che non ha alcuna intenzione di farlo. Ai tifosi dico, da tifoso prima che da dirigente, di avere pazienza. Negli ultimi anni abbiamo vinto, partendo quasi da zero, più di tutti. Se la società ha idea di cambiare rotta, pur rimanendo ambiziosa, per una ipotizzabile autogestione finanziaria, non bisogna fare dei drammi. Non dobbiamo dimenticare che i successi del Milan sono nati dai giovani. A questo proposito potrei fare un lungo elenco (ai soliti noti aggiungo Evani, Incocciati, Icardi, Battistini). Il Milan anche oggi produce di più a livello giovanile delle altre squadre. Tanti calciatori nati nel settore giovanile del Milan poi non hanno trovato spazio in prima squadra. L’attaccante, ad esempio, del Palermo, Succi, è un ragazzo cresciuto nel Milan così come Matri. L’obiettivo deve essere quello di arrivare a produrre giocatori non per gli altri, ma anche per noi stessi. Spero che il Milan possa essere competitivo e ambizioso già quest’anno, se non lo sarà da subito vi riuscirà in breve tempo.
(Luciano Zanardini)