Cosa dice a ciascuno di noi la morte di un giovane campione come Marco Simoncelli? Chi di mestiere sfreccia a trecento chilometri all’ora, a bordo di una macchina o in sella a una moto, davvero se la va a cercare come qualcuno dice da qualche giorno? E come si può accettare la fatalità di una morte che si sarebbe potuta evitare se semplicemente la moto avesse preso una traiettoria diversa nella caduta? Quale certezza ci può rimanere davanti a un fatto del genere? Ecco le riflessioni su questo tragico fatto di Roberto Perrone, prestigiosa firma delle pagine sportive del “Corriere della Sera”.
Non si può morire a 24 anni per sport, ho sentito da qualcuno in queste ore. Eppure chi si mette un casco e si infila nell’abitacolo di un’auto che può raggiungere i trecento chilometri all’ora o si sistema a cavallo di una moto con cui sfrecciare alla stessa velocità, spesso a livello suolo, su un circuito circondato da altri scatenati della stessa specie che ti sbucano accanto da ogni parte, sa che la morte è in agguato, sa che il destino occhieggia da dietro una curva, da dietro ogni curva.
Ecco quello che ho sempre pensato. Ho sempre pensato che questi ragazzi, come Marco Simoncelli, sotto la sua massa di capelli ricci, dietro i loro scherzi, i loro soprannomi, le loro spesso acerrime rivalità, celassero proprio questo senso quasi religioso del destino. Perché non ho mai visto nessuno amare la vita in un modo così vorace come i piloti, specialmente i motociclisti, più indifesi di quelli che stanno dentro un’auto. Non ho mai visto nessuno portare all’eccesso i sentimenti, come se ogni attimo fosse l’ultimo, come se ogni istante dovesse essere vissuto due volte, mandato a memoria.
Sic, dalla sigla che lo associava alle classifiche dei gran premi, Sic, in latino così. Così Marco viveva la sua vita, godendo di ogni momento due volte. Aveva 24 anni, ma paragonati a quelli di noi “normali”, motociclisti di città per sfuggire al traffico, erano almeno il doppio. Ma anche se fossero stati il triplo, questo non allevierà il
Dolore dei suoi genitori, dei suoi più cari amici e di tutti noi, anche se lo conoscevamo solo per la sua simpatia trasportata dalla tv con il suo accento romagnolo siamo toccati dalla sua tragedia, per una vita che se n’è andata così, su una pista afosa all’altro capo del mondo.
Ci resta, come unica certezza, come sola parola definitiva, una preghiera.
(Roberto Perrone)