Difficile dire cosa coinvolga ed emozioni di più di fronte a una piece teatrale: l’impetuosità della recitazione? La fedeltà alle motivazioni dell’autore? L’intreccio gesto-parola-impaginazione scenografica? La capacità di rappresentare il serpeggiante dramma del mondo? L’atemporalità della sfida artistica? Si potrebbe propendere per una delle risposte invece che per l’altra: il Meeting 2008 ha puntato per un evento che nelle intenzioni le contiene tutte, una serata di teatro in cui il termine “totale” calza a puntino. La piece di cui parliamo è la serata di apertura del Meeting: La Straniera (24 agosto), una produzione originale e suggestiva tratta da La Rocca di Thomas Stearns Eliot (1888-1965). Lavoro artistico a più dimensioni (recitazione, musiche, canto, teatro-in-video….), La Straniera è uno spettacolo complesso, una scommessa ardita. L’ipotesi, ambiziosa, è quella di raccontare la vicenda “occasionale” che ha portato alla nascita de La Rocca, ma nel frattempo di farne emergere i momenti poetici più veri e contemporanei. Teatro, quindi, ma con la forza della sfida alla coscienza umana degli spettatori.
Spettacolo complesso, si diceva, in quanto La straniera vive su tre piani differenti. Primo piano: la narrazione dei fatti storici. Siamo nel 1930 ed Eliot, nato negli Usa a Sant Louis, trapiantato a Londra e qui convertito, riceve da George Bell, arcivescovo anglicano di Chicester (personaggio vulcanico e primo sostenitore dell’ecumenismo in terra d’Albione, ex arcivescovo di Canterbury e amico del Mahatma Gandhi) e dall’attore e produttore Martin Browne la proposta di portare in scena una piece con lo scopo dichiarato di raccogliere fondi per le chiese periferiche della diocesi di Londra. L’opera, La Rocca, nasce come lavoro collaborativo tra più autori e andrà in scena nel 1934 di fronte a una platea composta per lo più da pastori e sacerdoti. Per questa platea Eliot imbastisce un’opera che mette in discussione la stessa esistenza della Chiesa e che parte con l’insolente voce del popolo: “Laggiù mi dissero: abbiamo troppe chiese. E troppo poche osterie”. Ovviamente non tutto risulta semplice: l’opera è frutto di un lavoro “a più mani” che edulcora qua e là i punti più amari. Alla fine, non tutto il lavoro è “firmato” da Eliot, che – infatti – sentirà la propria paternità artistica solo per i Cori. A Rimini tutta questa vicenda ha volti e voci, rievoca incontri e scontri, tratteggia l’atmosfera umana dell’epoca (siamo a metà strada tra la 1° e la 2° guerra mondiale) e giunge a rievocare la stessa messa in scena dell’opera, avvenuta nel 1934 al Sadler’s Wells Theatre di Londra.
Secondo piano: i readings dei Cori da La Rocca. In momenti determinati dello spettacolo di apertura del Meeting si accenderà il grande schermo e sul video scorreranno le stanze più significative dei Cori: “Qual è il significato di questa città? Vi accalcate vicini perché vi amate l’un l’altro? Cosa risponderete? “Ci accalchiamo Per trarre denaro l’un dall’altro”?” “È la Chiesa che ha abbandonato l’umanità, o è l’umanità che ha abbandonato la Chiesa?” Chi declama? Dove declama? Da dove vengono i video che arricchiranno lo spettacolo? La scelta artistica ha privilegiato la possibilità di disseminare in giro per l’Italia il lavoro di Eliot. Quattro diversi attori si son presi l’onere di dare volto e voce alle parole del poeta americano, recitando in diverse location: Massimo Dapporto alla Cappella degli Scrovegni di Padova; Alessandro Preziosi nella medievale piazza del comune di Fabriano; Lucrezia Lante della Rovere al Tearo Derby di Milano; Giancarlo Giannini a Recanati. Quattro grandi interpreti, ognuno alle prese con il testo, ognuno forte della propria personalità recitativa e in grado di dare differente tono e rotondità alle cose dette, alle cose sentite: la profondità essenziale di Dapporto, il ritmo aggressivo di Preziosi, l’immediatezza elegante della Lante della Rovere, l’autorevolezza matura di Giannini. Quattro modi di interpretare l’unico testo, quattro modi di mettere l’oggi a confronto con parole di otto decenni addietro, ma capaci di uno squarcio netto sul presente. E così l’opera si arricchisce. A tutto beneficio di chi sarà presente a vederla.
Terzo piano: l’ambientazione musicale. Il lavoro fatto da Marco Poeta, il riconosciuto maestro italiano del fado, è un capolavoro di intensità e di tessitura. Sono le chitarre (quella di Poeta e di Adriano Taborro, Paolo Galassi e Francesco Martorana) e la voce di Alessandra LoSacco a collegare l’atto scenico “in diretta” e i readings registrati in giro per l’Italia; sono i suoi ritmi a spingere la tensione emotiva del tutto, ritmi e timbri ora latini, ora jazzy, ora tendenti alla ballad e l’istante dopo oscillanti tra l’umore notturno e l’andamento ellenico. Fascinosa opera musicale, si potrebbe dire, proprio perché è suo compito essere linfa impercettibile – eppure ben percepita – di tutto l’andamento teatrale. Come se la musica – questa musica! – fosse presente fin dall’idea originale di Eliot…
La Straniera è da vedersi e leggersi nel mosaico dei tre differenti piani qui suggeriti, ma soprattutto è da “incassare” su di sè, come un uppercut poetico perché la “straniera” del titolo è Lei, la Chiesa. Le domande che porta – “È la Chiesa che ha abbandonato l’umanità, o è l’umanità che ha abbandonato la Chiesa?” e l’altra, ferocemente sottintesa: “… sembra che qualcosa sia accaduto che non è mai accaduto prima: sebbene non si sappia quando, o perché o come, o dove. Gli uomini hanno abbandonato Dio non per altri dèi, dicono, ma per nessun dio; e questo non era mai accaduto” – sono decise e contemporaneizzate sul palcoscenico. Meeting 2008, “Protagonisti o nessuno” si apre con queste domande, artisticamente espresse ed evocate. Forse nessun altro spettacolo poteva essere più degno.