Mica facile, essere una 15enne della suburba inglese senza padre e con una madre che sarebbe meglio non avere. Facilmente si finirebbe come Mia, la protagonista del film inglese Fish Tank, che passa le sue giornate ubriacandosi di sidro, tirando testate alle sue coetanee, ballonzolando senza talento sui ritmi hip-hop, cercando di liberare un cavallo malnutrito, sfuggendo a gomitate da un tentativo di stupro.

Il film non è che ingrani proprio in quarta: linizio è lento, un po sfilacciato, molto indie ma non nel senso buono, e fa crescere nello spettatore il sospetto di essere davanti a unopera di intento sociale (sospetto fomentato dal Gran Premio della Giuria che il film ha vinto a Cannes lanno scorso).

Una delle grandi verità non dette del cinema contemporaneo è che i film sociali e impegnati piacciono ai critici, piacciono ai giornalisti, piacciono ai giurati dei festival e, da noi, piacciono in certi giri romano-milanesi un po fighetti (quelli che hanno tutto Kiarostami in BluRay ma non hanno mai visto Matrix), ma spesso sono di una noia letale.

Uno è lì, seduto in sala, e nelle intenzioni del regista dovrebbe struggersi per il gravissimo problema social-politico-economico-cultural che gli vien sciorinato davanti, mentre quello che sta pensando è: Ma con i soldi che spendo stasera, quanto cianuro avrei potuto comprare?.

Ecco, per un po il sospetto sussiste, in Fish Tank, quando, a metà primo atto, arriva una gradita sorpresa: Mia sinvaghisce dellultimo fidanzato di mammà, e la storia, da ritratto sociale cupo ma un po risaputo, vira verso mete più character driven, ossia mosse dallo sviluppo dei personaggi. Mia comincia a cambiare, e riusciamo a intravedere qualcosa, sotto larmatura ferrigna della sua costante aggressività.

Poi, di nuovo, tutto sprofonda nellabisso, nel finale Mia, madre e sorella si dicono addio ballando al ritmo di Lifes a bitch and then you die (la vita è stronza e poi muori) ma con dentro qualcosa che assomiglia alla speranza, anche se non è chiaro da dove è arrivata e se resisterà.

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Sguardo interessante sul “coming-of-age” (ai tempi di Thomas Mann si chiamava “romanzo di formazione”), quello di Andrea Arnold (donna inglese 49enne, già premio Oscar per il miglior cortometraggio nel 2006), che si muove per il film con sguardo documentaristico e distaccato: molta camera a mano, nessuna colonna sonora in senso proprio (molta musica, ma tutta in presa diretta), e soprattutto coraggio nel casting.

 

La protagonista, infatti, è la – allora – 17enne Katie Jarvis, la quale mai ha sognato di fare l’attrice (pare non le interessi granché neanche adesso), ma un giorno stava alla stazione dei treni del suo orrido paesello di provincia sbraitando violentemente contro il fidanzato, e la sua genuina, scomposta energia impressionò il casting director del film, che, casualmente, stava sulla stessa banchina ad assistere alla scenata. Castata, la ragazza si rivela di bravura sorprendente, e riesce a reggere grossomodo da sola un film complesso e intenso. “Bràvo”.

 

Nel complesso, film interessante, forse persino bello, anche se a volte la poesia sembra divorare il ritmo narrativo. Per chi ama il “feeling” del cinema indipendente, un’esperienza da fare.

 

(Alvaro Rissa)