Nella notte degli Oscar 2017, l’ottantanovesima della serie, ricordiamo i sessant’anni del primo Oscar di Federico Fellini, quello a La Strada. Premiato come miglior film in lingua straniera nel marzo del 1957, è l’opera che ha imposto il regista riminese all’attenzione del mondo, forse quella che più di ogni altra, pur essendo solo il suo terzo (e mezzo) lungometraggio, ha dato corpo al significato del termine felliniano, utilizzato soprattutto dalla critica di oltreoceano per indicare alcune peculiari caratteristiche della sua filmografia, e del quale lo stesso Fellini si diceva lusingato, da un lato, confessando dall’altro di non avere una precisa idea del suo significato. I geni non hanno necessità di apparire, essi sono. Conoscono prima di sapere, spesso con limitata coscienza della valenza universale della propria ispirazione.
La Strada racconta di Zampanò, un artista girovago rozzo e istintivo, e della sua assistente Gelsomina, ragazza mite e graziosa, strappata alla famiglia dalla necessità. I due girano le piazze in motocarro, eseguono in coppia spettacoli di forza e di arte comica. Quando Zampanò uccide accidentalmente il Matto, funambolo circense divenuto amico di Gelsomina, unico a trattarla con gentilezza e affetto, questa prima si ammala e poi fugge da Zampanò. Tempo dopo, quando questi scopre che la ragazza è morta di malinconia, sinceramente affranto – nel celebre finale notturno sulla spiaggia – piange la propria animalesca stoltezza.
La storia affonda le radici in quell’Italia povera e popolana dell’immediato secondo dopoguerra, scenario di massima che consente a Fellini di disegnare la poetica toccante di un quotidiano quasi fiabesco, di un universo narrativo bastante a se stesso abitato da personaggi emblematici. Il tutto filmato secondo uno sguardo che deve molto al neorealismo, da poco tramontato, ma la cui eredità rimarrà viva ancora a lungo nel nostro cinema, sia in quello d’autore che nella grande ispirata stagione della commedia all’italiana. Il film, senza scadere nel melenso, riesce a commuovere con sincerità e candore, col tocco lieve di uno sguardo moderno, caratteristiche che ne decretano il successo mondiale e la comparsa nel lessico critico, come detto, dell’aggettivo fellinesque.
La genesi della storia è composita, come sempre sarà nella carriera del regista. Lo spunto principale viene dallo sceneggiatore Tullio Pinelli, suo collaboratore fisso da oltre un decennio, il quale, nei suoi viaggi in auto di ritorno da Roma alla nativa Torino, assiste nelle piazze dei paesi appenninici che attraversa (non esisteva ancora l’Autosole) a spettacoli di girovaghi, saltimbanchi e arte varia. Su questa base Fellini innesta le sue leggendarie fantasie sul mondo del circo e sui personaggi che lo animano. Da questo connubio nasce il singolare soggetto del film.
Il trattamento, cioè lo script contenente la storia e una descrizione dei luoghi e dei personaggi, è pronto già nel 1952. Fellini ha alle spalle un solo film interamente suo (Lo Sceicco Bianco, 1951; l’esordio del 1950 con Luci del Varietà è una co-regia con Lattuada), cosa che, unita alla citata singolarità del soggetto, desta non poche perplessità nei produttori Dino De Laurentiis e Carlo Ponti, tanto che impongono a Fellini di scrivere e girare una commedia, passaggio di più sicura riuscita presso il pubblico prima di affrontare il “salto” verso La Strada. A questo dobbiamo la genesi del film precedente, I Vitelloni (1953), che da episodio interlocutorio, nato per consolidare il nome del giovane regista presso il grande pubblico, è divenuto invece uno dei capisaldi della sua produzione, per tematiche e soluzioni visive forse superiore a lo stesso La Strada. Come dire due (quasi)capolavori al prezzo di uno.
Così il progetto momentaneamente accantonato prende il via nell’ottobre del 1953, con l’inizio delle riprese. Secondo costume, che diverrà poi una costante nella sua carriera, Fellini fa un ampio giro di provini, soprattutto per i ruoli secondari, al solo scopo di nutrire il proprio immaginario, avido di volti vecchi e nuovi, salvo scegliere alla fine chi già aveva in mente fin dall’inizio. Nessun dubbio per Anthony Queen, scelto subito per il protagonista Zampanò, del quale riveste l’esatto physique du role. Poi, con la mite Gelsomina, regala alla moglie Giulietta Masina il ruolo più importante della sua carriera, quello per il quale ancora è ricordata in tutto il mondo e per il quale ha ricevuto, all’epoca, lusinghieri complimenti niente meno che da Charlie Chaplin, che paragonò il personaggio a uno “Charlot in gonnella”. Invece per il Matto, prima di scegliere l’americano Richard Basehart, Fellini visiona anche Alberto Sordi, controvoglia e dietro insistenza della produzione, poiché il regista già sapeva che non l’avrebbe mai scelto – causa eccessiva notorietà sopravvenuta – e che questo avrebbe, come in effetti avvenne per diverso tempo, allontanato i due amici.
La Strada viene presentato in concorso alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia del 1954, suscitando reazioni critiche di segno opposto, ma aggiudicandosi il Leone d’Argento. Invece il pubblico lo ha amato incondizionatamente fin dalla premier di Milano, dove il film esordisce in sala la sera del 23 settembre 1954, dopo il contrastato passaggio veneziano. Buon merito di tale successo va anche ascritto al tema musicale di Nino Rota, una delle sue migliori composizioni per cinema, negli anni divenuto l’inno del lato più malinconico e poetico dell’immaginario felliniano, secondo per celebrità e bellezza solo all’immortale tema di Amarcord. Forse è questo il vero capolavoro dell’abilità felliniana: fissare per sempre musica, immagini, volti e situazioni in un mondo a parte, rivisitabile infinite volte con immutato piacere. Il magico e sognante mondo del cinematografo.