Pur avendo diretto eccellenti thriller come A History of Violence e La Promessa dell’Assassino, David Cronenberg è sempre stato conosciuto come il regista del grottesco. Chi impallidisce alla semplice vista del sangue si troverà in difficoltà di fronte alla deformità de La Mosca, o alla spirale di follia e violenza di Videodrome, ma se riuscirà a farsi coraggio saprà trovare ben altro che mera estetica dello shock. L’inumano è uno spunto per interrogarsi su ciò che rende un umano tale; il grottesco genera orrore nei personaggi in scena, ma anche fascino, in quanto li spinge a confrontarsi coi propri limiti e preconcetti. Il grottesco nel cinema di Cronenberg ha sempre avuto l’obiettivo di mettere alla prova protagonista e spettatore in egual modo, ma cosa succede quando il maestro del body horror toglie l’horror dall’equazione?
In un futuro non meglio specificato, il tormentato Saul Tenser (Viggo Mortensen) mette in scena perturbanti spettacoli di body art, nei quali la sua collaboratrice Caprice (Lea Seydoux) estrae dal suo corpo organi dalla crescita spontanea e incessante. L’unicità delle loro performance attira l’attenzione della comunità artistica e non solo: una funzionaria dell’ufficio registrazione organi (Kristen Stewart) sviluppa un’adorazione ossessiva per Saul, mentre il Governo, che si oppone alle mutazioni sempre più diffuse nella popolazione temendo che possano creare un divario nella specie, li monitora usandoli come esca per attirare frange radicali. Stretto tra il prestigio e i dolori lancinanti che scuotono il suo corpo, Saul Tenser si troverà a rivalutare le sue lealtà, il rapporto con la compagna e il senso della battaglia che ha sostenuto per tutti quegli anni.
Creare un’ambientazione fantascientifica e distopica non è un’impresa facile. Presentarla e farla vivere in due ore scarse, ancora meno. Nonostante ciò, Crimes of the Future ci offre una finestra tridimensionale nel suo mondo morente, utilizzando uno stratagemma incredibilmente ingegnoso: il futuro non ci viene presentato a partire dalla sua situazione globale, socioeconomica o ambientale, ma attraverso la lente di una nicchia specifica, cioè la comunità artistica che ha fatto del body horror un’espressione del sé. Il loro sguardo alieno condiziona la nostra percezione del contesto: la normalità con cui essi impiegano macchinari dal design quasi organico per aiutarsi in attività quotidiane divenute impervi, o per infliggersi ferite e operazioni per le quali hanno perso ogni sensibilità, crea un iniziale senso di turbamento, sostituito gradualmente da accettazione. Con il passare dei minuti veniamo risucchiati in questo mondo dalle tinte verdastre, a tal punto da dare per scontata tutta una serie di dettagli perturbanti: nel futuro descritto dalla pellicola non ci sono auto, né telefoni, né computer. Di animali, neanche l’ombra. È un cyberpunk senza tutti gli aspetti affascinanti del cyberpunk, dove la tecnologia funge solo da stampella ai difetti congeniti di alcuni personaggi, sempre che di difetti si possa parlare.
Crimes of the Future avvolge lo spettatore con la sua atmosfera, che si esprime ben oltre la fotografia malata e i design geigeriani dei macchinari. La colonna sonora accompagna le immagini con gentile insistenza, armonizzandosi a esse senza risultare roboante; in questo senso la musica del maestro Howard Shore ricorda più ciò che ha fatto con Il Silenzio degli Innocenti che con Il Signore degli Anelli, dove assumeva quasi un ruolo da protagonista. In Crimes of the Future, invece, sono le interpretazioni ad affermarsi come principale punto di forza: Viggo Mortensen esprime con maestria le contraddizioni del suo personaggio, un’istituzione priva di controllo sulla propria vita, che mette a nudo la propria interiorità, ma per strapparla e rigettarla. La sua è una fragilità con cui non riesce a scendere a patti, a differenza della sua compagna Caprice: il personaggio di Lea Seydoux brucia di passione, ma è insicuro sulla direzione verso cui incanalarla, ricettivo e geloso al tempo stesso delle prospettive con cui entra in contatto, ma incrollabile nel suo legame con Saul. A completare il terzetto delle performance magistrali è Kristen Stewart: in quanto funzionaria dell’ufficio registrazione organi, la sua Timlin è costantemente a contatto con ciò che alieno senza mai farne davvero parte, troppo strana per sentirla vicina a noi ma non abbastanza da penetrare nell’élite degli artisti della chirurgia. Un’interpretazione ipnotica fondata sull’incomunicabilità, il tentativo di stabilire un legame senza tener conto dei bisogni e del linguaggio dell’altro.
Per quanto il tema più lampante della pellicola sia l’accettazione della propria diversità, a fronte di un’autorità che la castiga e la rende oggetto di vergogna, è proprio su linguaggio e legami che vorrei soffermarmi. Il film è un susseguirsi di tentativi di stabilire un “contatto” con gli altri personaggi, di oltrepassare le differenze fisiche che li dividono per cogliere la loro essenza più profonda, o di sfruttare per presentare il mondo al proprio. Saul Tenser in questo senso è l’occhio del ciclone: c’è chi fa leva sulle sue debolezze per sfruttarlo come strumento, chi mette in dubbio i suoi preconcetti per elevarlo a simbolo politico, chi fa promesse mascherando il proprio interesse morboso.
La barriera è certo anche fisica: chi può capire davvero l’artista maledetto che sforna una mostruosità deforme dopo l’altra come se niente fosse (chiaro riferimento a Cronenberg stesso)? Gli altri autori vedono nel dolore e nel body horror lo strumento per incrinare questo futuro di apatia, chi scimmiottando chi trovando la propria strada, ma Saul farebbe volentieri a meno della sua maledizione, una verità semplice che nessuno comprende. L’unica eccezione è Caprice, che lo supporta senza mai imporsi con violenza sulle sue scelte di vita e giunge, nel finale, a fargli trovare il coraggio di compiere un salto nel vuoto, consapevole che potrebbe essere la fine della loro carriera. L’esito rimane ambiguo, ma conduce a una liberazione inequivocabile, in un’inquadratura che rimarrà impressa nel profondo dell’animo dello spettatore, smuovendolo dall’interno.
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