Non ha bisogno di lunghe presentazioni. Giustino Parisse è un collega, un giornalista. Lavora per il quotidiano Il Centro. Abita ad Onna. Una settimana fa ha perso tutto: due figli, il padre, la casa. Gli è rimasta la moglie, la madre salvata in extremis, tanti libri sotto le macerie.
Un’altra cosa gli è rimasta, forse la più difficile: la forza di parlare.
Ecco cosa dice a ilsussidiario.net.
Non ci sarebbe nulla da chiederti, e ogni domanda sembra banale. Semplicemente: cos’è successo?
Erano le 3 e mezza di notte, stavo dormendo, e i miei figli pure, ciascuno nella sua cameretta. Camerette nuove, belle, costruite proprio negli ultimi anni. Qualche ora prima c’erano state alcune scosse; io, da bravo giornalista, avevo il cellulare acceso, e avevo dato la notizia al caporedattore. In tempo; la notizia è poi uscita. Dopo la telefonata ero andato dai miei figli, li avevo rassicurati, ed eravamo tornati a letto. A un certo punto un rumore terrificante; io e mia moglie ci siamo abbracciati per difenderci. Mi sono alzato, ho usato il cellulare per farmi luce. Io sono andato nella camera di mio figlio, mia moglie in quella di mia figlia. Sono entrato, e ho visto il mucchio di macerie. Mio figlio gridava, io gridavo. Mia moglie era di là, e mia figlia non gridava; era già morta. Alle quattro io e mia moglie ci siamo resi conto che avevamo perso tutto quello che avevamo di più caro. Poi è venuto giorno, e abbiamo visto che anche il resto del paese era raso al suolo.
Com’è stato l’incontro con gli altri del tuo paese?
Ogni amico che arrivava portava notizie di morte: è morta Gabriella, è morta Susanna, Antonina, Benedetta, Giannina, Maria, Berardino, Pina, Silvana… Un rosario infinto di morti. Una distruzione completa di tutto. I figli, la casa, il paese in cui abiti, gli amici. Mi sono trovato letteralmente nudo. Ecco quello che è successo quella notte, che ha segnato la mia vita e quella degli altri.
Poi cos’hai fatto?
Sono andato dai miei parenti a Pizzoli, paese vicino, dove il terremoto ha fatto meno danni. Sono andato via perché lì non c’era nulla da fare. Poi c’è stato il funerale, e non abbiamo nemmeno potuto seppellire i nostri morti nei nostri cimiteri, perché il cimitero di Paganica, cui facciamo riferimento noi di Onna, è inagibile. Ora siamo qui, e proviamo a cercare di continuare a vivere.
Cosa ti sostiene?
Sinceramente non lo so. Questi sono giorni in cui si vivono dei vuoti totali, momenti in cui vorresti sparire nel nulla, e basta. Poi però ti sostiene il ricordo dei figli. Ogni padre pensa che i propri figli siano i migliori del mondo. Io so che erano belli, bravi, educati; quanto di meglio un padre possa desiderare. Le loro passioni erano le mie: il legame per il paese, le tradizioni, le persone. Pensando a loro mi dico di non mollare: se molli, mi dico, saranno dimenticati anche loro. Poi l’altra cosa che mi sostiene è il desiderio di continuare ad essere presente, a ricostruire; anche se non proprio quello che c’era prima, almeno qualcosa che ridia una dignità. Non è facile; e adesso parlo a distanza di pochi giorni. Non so come sarò tra qualche mese o tra qualche anno.
Cosa resta delle vita di prima?
Io ho quasi cinquant’anni, e i miei venticinque anni di lavoro, tutto ciò che ho guadagnato, li ho spesi nella mia casa, per i miei figli; e anche nei miei hobby, come la mia biblioteca con quasi 5mila libri, molti dedicati a Onna. La memoria storica del Paese che sta lì dentro. Ecco cosa resta. Spero di salvarli, i miei libri.
Un volto, una persona in particolare di questi giorni dopo la tragedia.
Ho avuto vicino molte persone. Ora ho qui al mio fianco un mio collega che è venuto da me sin dal primo momento. Poi mi sono stati vicini tutti i miei colleghi, tutti. E poi i tanti amici. Ma il vero volto che mi dà la forza per andare avanti è mia moglie. Ed è una forza reciproca.
Che senso ti sei dato a questo fatto?
Questa è la domanda di senso che tutti gli uomini si fanno. Basta guardare la storia, le grandi tragedie del passato che hanno scosso l’umanità. Da lì vengono le domande sul perché della vita. Ora non so rispondere: sono cattolico, e so che da lì viene la risposta. Ma in questi momenti molte certezze vacillano. Vacilla tutto. Ora non mi spiego perché tutte queste persone siano morte in questo modo.
Che cosa ti ha dato vedere tua madre che veniva salvata?
Al momento ho avuto una reazione stranissima, quasi di indifferenza, tanto era il dolore in quel momento. L’aggiunta di un altro dolore sembrava quasi non cambiare un granché. Poi, quando lunedì pomeriggio sono andato a trovarla da mio cugino, l’ho vista e mi si è riempito il cuore. Ho come rielaborato, e ho detto: la mamma c’è.
In questi giorni si parla molto anche di colpe, di responsabilità…
Io non ce l’ho con nessuno. Al massimo ce l’ho con me stesso, perché ho l’impressione di aver costruito la tomba dei miei figli. Un’idea che forse mi perseguiterà. Capisco poi i colleghi che cercano di capire e approfondire. Il problema è che nessun processo mi darà i miei figli. Se ci sono i colpevoli, va bene; ma è una faccenda che è troppo grande. Va bene l’inchiesta, se fa in modo che in futuro si evitino stragi come queste. Non si può certo far finta di nulla. All’Aquila poi ci sono casi particolari: ospedale, palazzo del governo, casi non chiari in cui crolla una parte di una casa e l’altra no. Quindi bisogna capire. Ma per me, personalmente, qualsiasi inchiesta o condanna è solo una cosa di cui prendere atto, nulla di più.
La solidarietà e la partecipazione della gente?
Veramente una cosa speciale. Tra l’altro in Abruzzo c’è sempre stata la rivalità tra aquilani e pescaresi; e invece i pescaresi hanno dimostrato una grandissima umanità e uno spirito di accoglienza incredibile. Tutti gli abruzzesi sono stati straordinari; anzi, tutti gli italiani. Una grande dimostrazione di solidarietà. Poi una polemica di certo ingiustificata è quella sui soccorsi. Da me sono arrivati dopo quattro ore; quando ero alpino ai tempi del terremoto in Irpinia arrivammo dopo due giorni. Qui i soccorsi hanno salvato mia mamma.
Pensando all’Irpinia, che effetto le fa vedere ora le parti rovesciate?
Ho un ricordo straordinario dell’Irpinia, una medaglia al valore, che ora è tra le macerie. Poi ricordo le facce spaventate, ma anche lì in modo dignitoso. Esperienze che porto con me; le avevo scritte in un diario, che è ancora seppellito insieme agli altri miei libri. Ricordo poi l’impotenza di quelle persone. Questa l’ho ritrovata in me adesso: l’impotenza. Ed è quello che mi fa più rabbia.
Come ripartire ora?
Come dicevo prima con il ricordo: con i miei figli ho vissuto diciotto anni bellissimi, molta gente non ha avuto nemmeno questo. Poi la voglia di ricostruire, di non dimenticare, di rimettere insieme la biblioteca con tutto quello che porta con sé. E poi c’è da rimettere insieme quello che è rimasto della mia famiglia: mia moglie, mia madre, mio fratello. Si riparte e si ricostruisce con prospettive diverse, e con una consapevolezza che prima non c’era.
Quale?
Che tutto è precario. Anche se hai progetti, buoni, giusti fin che vuoi, cerca di realizzarli, ma sempre tenendo conto della precarietà che circonda la vita umana.