Che l’llva di Taranto abbia prodotto un cospicuo inquinamento, sembra fuori dubbio. Ma, effettivamente, a che livelli? E con quali effetti sulla salute delle persone? Di recente, il presidente nazionale dei Verdi, Angelo Bonelli, e il presidente di Peacelink Taranto, Alessandro Marescotti, hanno illustrato dei dati relativi al periodo 2003/2008 che proverebbero come nei pressi della fabbrica ci sarebbe un aumento del 10% dei decessi per tutte le cause e del 12% per tutti i tumori. Il ministro dell’Ambiente Clini, dal canto suo, annunciando querela, e comunicando che il governo si costituirà parte civile nel processo per accertare le eventuali responsabilità, fa sapere che quei dati sono parziali. L’unico studio serio e attendibile, predisposto dall’Istituto superiore di sanità, dal quale quei dati sono stati estrapolati, è in attesa di pubblicazione. Nel frattempo, giunge un’altra brutta notizia: pare che i custodi giudiziari abbiamo dato un valutazione negativa sul piano di investimenti immediati necessari per risanare gli impianti attualmente sotto sequestro. Un lavoratore dell’Ilva di Taranto, che per ovvie ragioni preferisce rimanere sotto anonimato, ci spiega i risvolti meno noti di tuta la vicenda.
Come giudica i dati sulla mortalità derivante da cause imputabili alla fabbrica?
Personalmente, non ho le competenze per affermare se, effettivamente, il tasso di mortalità sia ai livelli in cui è stato descritto. Sta di fatto che mio padre e tanti miei amici di Taranto sono morti di tumore.
In ogni caso, possiamo parlare di un tasso di inquinamento spropositato?
L’inquinamento è alto. Tuttavia, non dobbiamo dimenticare che la città è fortemente industrializzata. Non solo per la presenza dell’Ilva che, da sola contribuirà al 40% circa dell’industrializzazione cittadina. Da Google Maps, per intenderci, si ha la netta percezione, dal punto di vista visivo, di come gran parte delle industrie locali siano rappresentate anche dallo stabilimento Riva e dallo stabilimento dell’Eni. Che non produce di certo cioccolatini, ma è una raffineria petrolifera. Oltretutto, tra le più grandi d’Italia. Essa, quindi, non è di certo da meno in termini di impatto ambientale, così come d’inquinamento dell’acqua, dell’aria e del terreno. Questo, ben lungi dal difendere l’azienda, per sottolineare come le va riconosciuto di non essere l’unico fattore inquinante.
In ogni caso, pare che inquini, e parecchio. Come si è giunti a questo punto?
L’azienda è stata acquistate da privati nei primi anni ’90. Solo da, relativamente, pochi anni, quindi, si è iniziato a porre attenzione ai problemi legati all’inquinamento e al territorio.
Lo Stato, di questi fattori, se ne è disinteressato?
Direi proprio di sì. Non solo. Tra i motivi dell’attuale situazione, non da ultimo ci son le condizioni disastrose in cui lo Stato fece trovare l’Ilva alla nuova proprietà.
Come vivono questo momento i lavoratori della fabbrica?
E’ difficile far comprendere all’esterno come un’area come l’Ilva, in cui lavorano 11mila persone, più l’indotto, è paragonabile ad una grande città in cui ciascun settore rappresenta un quartiere in cui lavorano persone che vivono la situazione e le proprie realtà in maniera differente. Per quanto mi riguarda, nella mia area, che non è tra quelle sottoposte a sequestro, c’è un forte sentimento d’aspettativa. Siamo consapevoli del fatto che stiamo facendo il nostro lavoro al meglio e che, comunque sia, dobbiamo aspettare le decisioni di altri per capire se potremo continuare a lavorare oppure no.
Secondo lei, come andrà a finire?
Chiunque dovesse entrare in fabbrica, si renderebbe immediatamente conto del fatto che è del tutto impensabile poter chiudere da un giorno all’altro impianti di queste dimensioni e, oltretutto, perfettamente funzionanti.
Quindi, crede possibile dar vita a quegli interventi che consentano di bonificare l’area e ripristinare le condizioni affinché si possa tornare a lavorare in serenità?
Al momento, da parte della società, assistiamo ad un tira e molla nei confronti della Procura e della politica. Come in tutte le contrattazioni, le parti cercano di raggiungere, per se stesse, il massimo vantaggio possibile. L’importante, tuttavia, è che alla fine si raggiunga un punto di equilibrio. E che questo punto salvaguardi tutto: l’uomo, la sua salute, il suo lavoro, e l’ambiente.
I margini per operare in tal senso ci sono?
Non mi pare che ci siano alternative. Per ragioni sociali, di ordine pubblico e di economia nazionale.
Il fatto che il ministero si sia costituito parte civile crede che possa contribuire in maniera positiva o negativa alla situazione?
Credo che si sia trattato semplicemente di un atto dovuto.