Non ho titolo per intervenire sulla vicenda delle dimissioni di Papa Benedetto XVI, se non quello che mi proviene dall’appartenere alla Chiesa. Al pari degli altri fedeli, anch’io avverto un sentimento di turbamento e di smarrimento, misto a un senso di stupore e di profonda commozione, rispetto a un gesto riconosciuto unanimemente come storico e inimmaginabile. Un gesto che, se evidenzia “l’incredibile libertà di un uomo afferrato da Cristo”, come prontamente suggerito da Julián Carrón, resta assolutamente drammatico nella sua unicità; ciò non tanto per la mancata o dettagliata divulgazione delle relative ragioni fondanti, quanto, piuttosto, proprio per il suo contrario, ossia per la piena comprensibilità delle stesse. Per ammissione del Pontefice esse hanno a che fare con il «bene della Chiesa», posto che la rinuncia al ministero di Vescovo di Roma è stata motivata con la raggiunta consapevolezza dei limiti “dell’età avanzata” e con la conseguente “incapacità di amministrare bene il ministero” di Pietro.
Di qui, tutti gli interrogativi che assalgono tanti fedeli. Essi concernono quantomeno tre profili, ossia: il dolore per un distacco così estremo; la fatica a comprendere la coincidenza fra il «bene della Chiesa» e un simile gesto; infine, la difficoltà a riconoscere il proprio ruolo nella drammaticità storica del momento. Si tratta di interrogativi che possono trovare soluzione specialmente alla luce dell’esperienza e dell’intelligenza della fede, come del resto ha dimostrato l’appassionata incapacità a comprendere denunciata da Eugenio Scalfari su Repubblica domenica scorsa. Per giunta, si tratta di interrogativi verosimilmente destinati a essere incrementati nei prossimi giorni (quantomeno sino al Conclave) a seguito della crescente produzione giornalistica di scoop (veri o costruiti poco importa), che nella desolazione umana descritta restano incomprensibili per eccesso di realtà, a meno di non essere letti – ancora una volta – alla luce dell’esperienza e dell’intelligenza della fede.
Quanto al primo profilo, il dolore per il distacco che si sta consumando è stato descritto in modo struggente dal Cardinale Vallini in occasione dell’ultimo incontro del Papa con i sacerdoti della diocesi di Roma. Egli ha confessato di provare “i sentimenti in qualche modo simili a quelli degli anziani di Efeso, chiamati da Paolo a Mileto per ascoltare prima della sua partenza per Gerusalemme le sue parole di congedo. «Voi sapete come mi sono comportato… ho servito il Signore in tutta umiltà, tra le lacrime e le prove…; non mi sono mai tirato indietro da ciò che poteva essere utile, al fine di predicare a voi e di istruirvi…, testimoniando… la conversione a Dio e la fede nel Signore nostro Gesù… Tutti scoppiarono in pianto e, gettandosi al collo di Paolo, lo baciavano»”.
Quanto al secondo profilo, la fatica a comprendere le ragioni di un gesto così estremo è motivo di scandalo e sgomento per tanti. Eppure, che il «bene della Chiesa» si risolva in decisioni umanamente drammatiche costituisce una consapevolezza che appartiene alla storia della Chiesa stessa. Riprendendo Sant’Agostino, Giacomo Tantardini spiegava che il diavolo tenta gli uomini non innanzitutto perché pecchino (anche se non li può costringere dalla sua parte con la violenza e con l’inganno se non attraverso il peccato), ma perché vadano dalla sua parte.
Aggiungeva che questa consapevolezza rappresenta una dimensione essenziale della storia della Chiesa, la quale non si può descrivere solo come storia di grazia e di peccati. Ciò in quanto, come insegnava Luigi Giussani, “i fattori della storia della Chiesa sono tre: la grazia, il peccato e l’anticristo. Se non si tiene presente l’anticristo, il rapporto tra grazia e peccati può essere concepito moralisticamente. L’anticristo, attraverso il peccato, vuole portare l’uomo dalla sua parte”.
Si tratta di una consapevolezza che ha segnato gli ultimi pontificati. Destò scalpore il drammatico grido di Paolo VI sul “fumo di satana entrato nella Chiesa di Cristo attraverso qualche fessura”; un pari sgomento fu provocato dalla prematura morte di Giovanni Paolo I, che sempre Giussani ricordò come “un sacrificio reale”, se non proprio come un “martirio” (“sapremo forse soltanto alla fine del mondo fin dove è stato martirio”); analogo sconcerto, infine, derivò dall’attentato alla vita di Giovanni Paolo II, del quale restano sconosciute le vere motivazioni. Del resto, basta ricordare le tentazioni subite da Gesù nel deserto prima di andare a morire sulla croce, per comprendere come una pari drammaticità non avrebbe potuto risparmiare i successori di Pietro. È in tale contesto, per l’appunto, che il limite “dell’età avanzata” è divenuto per Benedetto XVI un impedimento ad attendere al «bene della Chiesa» e che la relativa consapevolezza ha costituito il supremo atto di umiltà e di libertà.
Si arriva così al terzo interrogativo, che riguarda tutti i fedeli: qual è il compito di ciascuno rispetto alla drammaticità che il «bene della Chiesa» implica? La lotta contro il potere delle tenebre è riservata al solo Vicario di Cristo, oppure è condivisa da ogni cristiano? In tal caso, attraverso quali condizioni ciò può avvenire, tenuto conto che le ragioni storiche della contesa restano inevitabilmente inaccessibili ai più?
A ben vedere, la differenza fra il Sommo Pontefice e gli altri fedeli è solo di ruolo e non di funzione; lo stesso Benedetto XVI ha scritto che, “Per quel che riguarda il Papa, anche lui è un povero mendicante davanti a Dio, ancora più degli altri uomini”. Anche se in forma diversa, ciascuno partecipa in pari modo all’edificazione del Corpo di Cristo, che è la Chiesa; nella diversità dei compiti, ciascuno condivide la stessa responsabilità, giacché la coscienza di ciascuno è chiamata alla medesima totalità. Nella preghiera più cara alla tradizione cristiana non sfugge una tale drammatica consapevolezza. Il Rosario si chiude proprio con l’invocazione per “le intenzioni del Papa”, in tal modo collegando le azioni di ogni singolo (per così dire, insignificante) fedele a quelle del Capo della Chiesa.
Solo così risultano comprensibili quei gesti estremi e solitamente sconosciuti che si sono succeduti nella storia della Chiesa, ad opera dei tanti semplici fedeli che hanno voluto condividere il sacrificio del Pontefice dell’epoca.
All’indomani dell’attentato a Giovanni Paolo II, dalle colonne del Corriere della Sera Giovanni Testori se ne assunse la responsabilità. Nell’immediata e terribile incertezza sulla sopravvivenza del Papa, egli chiese perdono in un memorabile articolo colmo di struggente e lucida umanità: “Signore, Tu che conosci tutto di noi, la nostra infinita cenere e la nostra infinita miseria, ma anche il nostro infinito bisogno e la nostra infinita sete di carità, di speranza, di giustizia e di amore, perdonaci se oggi chi Ti rappresenta qui, su questa terra tragica e disperata, per mano d’uno di noi ma per colpa di tutti (e lì, nella prima fila, mi colloco io che Ti chiamo, che t’invoco e Ti supplico); perdonaci se lui per colpa della nostra totale inadempienza alla Tua parola, risale, come Te, la via della croce; come Te viene colpito, insultato, ferito, abbattuto”. E così continuava: “Mentre la sera sta scendendo su questo giorno di dolore e di martirio, mentre il mio cuore piange […], non intendo incolpare nessuno, ma solo me stesso, le mie continue, turpi omissioni, il mio continuo preferire l’egoismo alla carità, l’orgoglio all’amore”. E infine terminava: “È del Tuo perdono che la nostra Terra ha bisogno. Lascia che scenda, come sempre, anzi ancora più di sempre, dal Tuo cuore dolcissimo. Stasera, qui ti promettiamo tutti d’essere meno indegni di Te e del Tuo amore”.
Del pari, in una delle più grandi opere teatrali del 900, L’annunzio a Maria di Paul Claudel, un dramma sull’amore ambientato in un Medioevo convenzionale, l’anziano padre della protagonista dimostra un’analoga consapevolezza. Non riuscendo a reggere le divisioni che attanagliano il regno di Francia e la Chiesa, egli prende la grande decisione, quella di andare in Terra Santa per implorare sul Sepolcro di Cristo che ritorni l’unità nel popolo, con un Re e un Papa. Come commentava Giussani, egli “ha la percezione che la gratuità si affossi e decide di andare a morire, abbandonando la moglie, le figlie, i terreni”.
È in una tale consapevolezza, per concludere, che si sta compiendo il drammatico dialogo di questi giorni fra Benedetto XVI e i fedeli che vanno ad ascoltarlo. Un dialogo dove il dolore e la commozione per la rinuncia del ministero papale è continuamente proiettato sulla roccia del soglio di Pietro, nella certezza che il Signore non abbandona la Sua Chiesa. Si tratta, tuttavia, di una certezza drammatica, perché conseguente all’iniziativa di Dio e alla libertà di ciascuno. Ecco perché è di grande consolazione il saluto finale reso dal Papa: “Speriamo che il Signore ci aiuti. Io, ritirato con la mia preghiera, sarò sempre con voi, e insieme andiamo avanti con il Signore, nella certezza: Vince il Signore!”.