«Sei la terra che aspetta». A cent’anni dalla sua nascita Pavese è per noi ancora attuale, perché il suo dramma è anche il nostro: la sua esperienza esistenziale e poetica è tutta attraversata dal presentimento che nella vita può accadere qualcosa. Questo è il fil rouge che ha guidato gli interventi all’incontro dedicato allo scrittore nato nel 1908 in un paesino delle Langhe, in provincia di Cuneo. Uberto Motta, docente di Storia della Critica letteraria all’Università Cattolica di Milano, ha voluto raccontare cosa ha imparato dalla propria esperienza di lettura di Pavese: uno scrittore che nella sua ostinazione a rifiutare ogni legame umano e a considerare la vita qualcosa di sporco, l’amore di sudicio, fino al gesto estremo del suicidio nel 1950, ci è però caro per la sua ricerca profonda del senso della vita. Ricerca evidente nei Dialoghi con Leucò, dove mette in bocca a Orfeo la propria domanda: Orfeo nel mito greco è il citareda che col suo canto riesce a commuovere le divinità infernali, tanto da ottenere di riportare sulla terra l’amata Euridice, a condizione di non guardarla in viso finché non fossero giunti alla luce del sole. A un certo punto tuttavia Orfeo si volta ed Euridice svanisce. «Arriva fino a noi questa sera – dice Motta – una domanda: perché Orfeo si è voltato? Perché, ci spiega Pavese, risalire alla luce del giorno insieme a Euridice genera una domanda: vale la pena di vivere ancora? Risponde di no. La tragedia di Pavese si radica qui: se la morte è inevitabile meglio non tornare mai più». E aggiunge: «Orfeo spegne la candela perché crede di aver capito che l’oggetto della sua ricerca passava per Euridice, ma non era Euridice; non è una nuova, seconda vita che rende felice ciò che potrà morire. Orfeo non cercava Euridice, cercava sè medesimo, scende nel proprio inferno per scoprire il proprio destino». Questo tema è ripreso nelle poesie di Lavorare Stanca, dedicate all’uomo solo, nei versi in cui Pavese dice: «Non c’è cosa più amara che l’inutilità di un giorno in cui nulla accadrà». Se non si aspetta niente sembra che non valga più la pena di vivere. E il dramma si fa più intenso in una lettera del gennaio 1938: «Vivo con la mentalità del suicida; convinto dell’insufficienza di ogni commercio umano ho una sete terribile di amicizia e comunione». Dunque suo malgrado Pavese è approdato alla verità umana che l’uomo da solo non ce la fa. Davide Rondoni, poeta e scittore, rileva la contraddizione insita nella personalità e nell’opera di Pavese: «È uno che ha una grande fascinazione per la bellezza e ne sente immediatamente il sudicio; è uno che continua a fissarsi nella propria solitudine e nella vita fa lo scrittore. Ha sentito questa attrazione all’assoluto, ma privata di calore. Questo che è urticante però è magnetico in Pavese, è ciò che ci attrae, perché noi siamo così: l’uomo è un animale ossimorico che non si risolve da solo». Ma cosa permette che la contraddizione nella natura umana non porti alla tragedia? «La radicalità di Pavese – ha aggiunto Rondoni – la serietà con cui ha portato questo suo dolore chiuso è il suo debole singhiozzo che permette forse al nostro singhiozzo di essere più forte». Dunque l’uomo attende, ma questa sua tensione è rivolta a qualcosa che egli non conosce, che deve arrivare da un altro: «Hai un sangue, un respiro. / Sei fatta di carne / di capelli di sguardi / anche tu […] Dolce frutto che vivi / sotto il cielo chiaro, / che respiri e vivi / questa nostra stagione, / nel tuo chiuso silenzio / è la tua forza. Come / erba viva nell’aria / rabbrividisci e ridi, / ma tu, tu sei terra. / Sei radice feroce. / Sei la terra che aspetta».