Ho letto la lettera di Julián Carrón comparsa su Repubblica il 1° maggio con profonda attenzione. Ne ho avvertito la straordinaria vitalità ed umanità, da parte di chi vuole lanciare un messaggio, insieme, al suo popolo e all’intera collettività.
Ma, soprattutto, ne ho colto, io ebreo, un aspetto per me essenziale: quello della sottolineatura del valore costitutivo della responsabilità individuale, quale condizione del vivere comune. Questo è, oggi più come mai, un insegnamento prezioso ed imprescindibile che mi ha fatto nuovamente riflettere, alla luce della mia specifica tradizione e cultura, su alcuni principi ebraici che dimostrano come il riconoscimento della singola individualità e la fede non solo non siano antitetiche tra loro ma, al contrario, siano fattori di crescita per ogni contesto sociale e comunitario.
Non a caso, in ebraico, “individualità” (ishiùt), e “umanità” (enoshiùt) hanno la stessa radice: la parola “ish”, che significa “uomo”. Individualità e collettività non sono, dunque, così distanti tra loro. Sono l’una complementare all’altra. L’umanità, la collettività, è l’insieme di individualità realizzate nella loro rispettiva integrità e, al contempo, valorizzate nella loro reciproca integrazione.
Sempre non a caso molto simile ad ishiut (“individualità”) è ishut (“matrimonio”, “unione”), termine anch’esso derivante da “ish”, “uomo”.
Allora, è chiaro per costruire un modello sociale basato sulla valorizzazione della libertà individuale, ogni uomo, ognuno di noi, deve decidere di essere integralmente se stesso, deve voler scoprire la propria irripetibile individualità.
La tradizione ebraica al riguardo è perentoria.
Il grande rabbino Hillel, quando venne sfidato da un convertito a spiegargli l’insegnamento di Dio, gli diede una sola risposta, esaustiva perché racchiudeva la totalità dei Comandamenti del Signore: “ama il prossimo tuo come te stesso”.
Accettare tale ordine è un atto di fede decisivo, in virtù del quale l’uomo esce dal giogo degli impulsi. E diventa autenticamente uomo.
L’accettazione del precetto di amare il prossimo come se stessi è l’atto di nascita dell’umanità e quindi dello stare insieme, perché obbliga l’individuo, prima di stabilire una relazione sociale, un io-tu, a comprendere la propria specificità. Tutte le altre routine di coabitazione umana, tutte le regole predesignate o scoperte retroattivamente, non sono che un elenco incompleto di note a margine di quel precetto.
Perché nell’uomo che si scopre e si approfondisce, e così interagisce con l’altro, nasce l’umanità. Così la moralità diventa la condizione della integrazione sociale e la vita di un uomo, la vita di ogni uomo, si pone come la modalità per far sopravvivere l’umanità intera.
Perché amare il prossimo come se stessi vuole dire rispettare la reciproca unicità, significa apprezzare il valore delle differenze che tutte insieme arricchiscono il mondo dove viviamo.
Questo comandamento universale racchiude la modalità per raggiungere Dio, per portarlo nella propria vita, nella propria esistenza individuale.
Il capitolo 12 della Genesi si apre con il comando di Dio ad Abramo Lech lechà, “Vattene via”. I Maestri ci insegnano che tale comando potrebbe però anche significare “va verso te stesso”, ossia, “alla ricerca di te stesso”. “Vattene dentro te stesso”, ascolta la voce che ti viene da dentro e non sempre quella che ti proviene dall’esterno; soltanto attraverso questo processo Avràm, Abramo, diventa Avraham “padre di numerose genti”, un vero universalista.
La stessa nascita dal patto tra il popolo ebraico e il Signore ha alla base questa modalità. Ed infatti quando il popolo ebraico si accampò sotto il Monte Sinai per ricevere la legge, lo fece come un popolo unito, “come un sol uomo, con un solo cuore” perché solo un popolo unito può ricevere la Torah, ma sempre sapendo che questa unità non significa omologazione, perché come dice il Talmud “i volti delle persone sono diversi così le loro idee sono diverse”.
Ogni uomo è un mondo e la diversità è una ricchezza.
Questo vuole dire che, anche la legge più elevata, la legge del Signore, per essere accolta da una collettività, deve essere sentita e riconosciuta da ogni singolo. Deve parlare all’identità di ogni uomo, ai suoi bisogni e desideri, ad un io che viene responsabilizzato, proprio nel momento in cui gli viene assicurata la libertà.
Siamo dinanzi a una sussidiarietà ante litteram, che ha alla base il riconoscimento della forza creativa del singolo individuo il quale diventa contraente di un accordo con il Signore.
Ed è proprio questo il secondo aspetto che mi ha colpito nelle parole di Julián Carrón: l’uomo che va a fondo a se stesso, assume su di sé una responsabilità, individuale e collettiva. Perché apre la propria vita a Dio.
In questo senso, diviene fondamentale il rapporto con la legge e con l’insegnamento di Dio. L’uomo è chiamato a vivere ogni momento della sua esistenza riconoscendo la presenza del Signore, sempre e comunque, nell’ambito di una relazione che valorizza, però, i principi di libertà e responsabilizzazione. Una relazione che non opprime, ma libera l’uomo.
Non a caso, la nascita del Popolo ebraico, ricordata con la festa di Pesach, è il momento in cui Dio dichiara di essere il soggetto “che ti ha fatto uscire dall’Egitto, dalla terra della schiavitù”.
L’ebreo diventa quindi libero, un cittadino ante litteram, nel momento in cui riconosce Dio nella propria vita, sapendo che l’unica sottomissione possibile è proprio quella divina.
Dio libera l’uomo che ne accetta il giogo: questa è lo straordinario messaggio che è alla base della tradizione ebraica.
L’uomo libero e liberato deve servire il Signore, consapevole di avere un preciso compito, una responsabilità da vivere nella propria particolare esperienza. E la libertà conquistata non ha senso se non c’è la legge del Signore.