Anno scolastico 1989/90, prima media. E prima volta, per un bambino della periferia torinese, al Salone del Libro, che forse ai tempi si chiamava «fiera». Così, a quasi venticinque anni di distanza, dopo che di libri se n’è incontrati un po’ – e dopo che si è persino tentato di contribuire al caos delle parole aggiungendovene di altre – tornare a visitare la kermesse degli editori italiani fa venire in mente il personaggio che in Horae Canonicae di Auden chiede al dio della giornata di fargli «conoscere una nuova storiella». O, con stato d’animo più cupo, all’Eraclito ripreso da Eliot in cima ai Quartetti con il suo monito universale che attraversa epoche e luoghi: «Benché il logos sia uno, ciascuno vive secondo una sapienza sua propria».
È proprio questo intreccio di sovrabbondanza e inutilità la prima impressione che investe camminando tra gli stand del Lingotto: «A che tante parole? Perché tanta carta?» C’è sempre un Eliot ad accompagnare i passi della vita e adesso è Prufrock che va alla festa già annoiato perché conosce già: le donne ingioiellate, i discorsi da tavolino, il colore dei drink. Del Salone si può ben dire lo stesso. Conosco già tutta questa fauna: gli uffici stampa, le ragazze carine che ti invitano ai corsi di tecnica mnemonica, la commistione di novitarismo spinto e puzza al naso verso la plebeizzazione del sapere, anzi – come dicono i veri intellettuali – «dei saperi».
Eppure, anche questo troppo che è inesorabilmente troppo poco è fatto di carne e sangue, di persone, di occhi che guardano e vene che pulsano. E ci si accorge una volta di più, fermandosi agli stand, fermandosi con chi li fa, che le cose vanno credute anzitutto perché ci sono. E così le persone. Capita allora di fermarsi da Henry Beyle, che non è Stendhal sotto mentite spoglie ma un gruppo di appassionati milanesi che fanno un’editoria microscopica e bellissima: quadernetti di venti-trenta pagine, tirature limitate a non più di 575 copie, alcune collane cucite a mano con filo di lana, titoli rarissimi come le Polpette al pomodoro di Umberto Saba, un raccontino che arriva dritto dall’archivio privato del poeta triestino e che racconta di un dialogo immaginario a tavola con Leopardi. Somma inutilità, somma bellezza.
O capita, continuando il pellegrinaggio, di imbattersi nello stand «Editori del Piemonte», dove si raccolgono più editori che hanno appena visto cadere un progetto comune e invece di lasciarsi andare si sono detti «riproviamo, rilanciamo». Insieme e ciascuno con un rischio personale non da poco, se un editore come Puntoacapo, per esempio, pubblica un volume dal titolo Poesia in Piemonte e Valle d’Aosta: 488 pagine e 30 euro per portarselo via, un’operazione editoriale ben oltre il limite della follia. Che però viene fatta, con il coraggio di chi ha un’idea chiara del valore cui tende ed è perciò disposto a perdere per strada ciò che è necessario perdere.
Capita infine, di trovare un editore come Giuliano Ladolfi, che da oltre vent’anni assume su di sé la colpa e il vizio della poesia nella piccola Borgomanero: dapprima circuendo i suoi studenti e appassionandoli all’arte dei versi; quindi fondando con alcuni di loro quella che a cavallo tra gli anni Novanta e Duemila è stata con ogni probabilità la più importante rivista italiana di poesia; infine, da poco più di due anni, con la traduzione in casa editrice di questa esperienza ventennale di fare comune.
Fare comune, ecco. Sono il verbo e l’aggettivo che caratterizzano le esperienze più brillanti che si incontrano al Salone e che interrogano di più su che cosa voglia dire e a che cosa serva, oggi, nell’epoca dell’overload informativo, con i costi di stampa e di diffusione ormai a portata di tutti, fare cultura. E se fare l’editore significhi tendere a fare cultura. Gli esempi citati condividono alcuni aspetti: una passione precisa e acuta per l’oggetto culturale che propongono; la lotta pervicace per sopravvivere economicamente, che com’è noto acuisce i sensi; il desiderio di cercare e allargare il proprio pubblico, ma anzitutto di conoscerlo ed esserne riconosciuti.
Allargare il pubblico – quindi – non per emulare quelle aziende di lavatrici travestite da editori che sono ormai i grandi gruppi, ma per condividere il peso e la gioia di fare cultura. Soprattutto, per condividerne il senso reale, per riportare la cultura al suo senso profondo di espressione e terreno fertile (cultura/coltura) di una vita comune.
È così, per questa inutile necessità, che è nata l’arte, quando a Lascaux il più strano del branco raccolse della polvere da terra e disegnò un cavallo sulle pareti della grotta. Ed è meraviglioso che a ventimila anni di distanza ancora ci siano uomini che per questa inutile necessità sentono di dover vivere.
Persino tra le luci al neon della fabbrica di Lingotto.