Nel 1987 il poeta milanese Luciano Erba pubblica un’agile plaquette intitolata «Il tranviere metafisico»: si tratta di una decina di poesie incentrate sul tema del viaggio, caratterizzate da uno stile e un lessico precisi e misurati, in equilibrio tra la lucida oggettività (o meglio, oggettualità) tipica della scrittura dei poeti della Linea Lombarda tracciata da Luciano Anceschi e un’ironica e consapevole narrativa di sè e del proprio passato. Nella poesia «L’ippopotamo», Erba scrive: «Forse la galleria che si apre / l’ippopotamo nel folto della giungla / per arrivare al fiume, ai curvi pascoli / di foglie nate a forma di cuore […] //  forse questo e qualsiasi tracciato / come a Parigi la Neuilly-Vincennes / o l’umile «infiorata di Genzano // o un canale di Marte, altro non sono / che eventi privi d’ombra e di riflesso / soltanto un segno che segna se stesso».



Amara lezione in rima che, se non fosse per la sfumatura dubitativa e necessaria dettata dal «forse», apparirebbe come una retromarcia rispetto al titolo della raccolta precedente – «Il cerchio aperto» -, che era perfetta sintesi del lavoro poetico di Luciano Erba, lontano da una strumentalizzazione semiologica del reale. Al contrario, egli appariva dedito a una scrittura dal «registro desiderativo», come ha detto Stefano Prandi, scrittura che, pur rimanendo fedele al primato dell’evento reale, riusciva a conseguire il più puro intento della definizione anceschiana di «poesia in re»: parola fedele all’oggetto, certo, ma che, evitando ansie di trascendenza o vertigini ermetiche, era portata a divincolarsi dall’arida verifica empirica del dato, dal nudo realismo.



Nella stessa silloge «Il tranviere metafisico», non mancano infatti momenti di sensibile interrogazione, come nella descrizione di un ponte, figura di qualsiasi collegamento o attraversamento esistenziale: «Non importa se manca qualche asse / tra le corde stanche e sfilacciate / se il vento che soffia nella gola / fa trepido e incerto il suo passaggio / vorrebbe mettere piede all’altra sponda / sponda come?». O ancora: « né mai chiedersi a un angolo di strada / ed io, io ospite di quale sera?». Il poeta, durante il viaggio, registra la «noia» del mondo, annota, vedendo dal treno le donne che tendono i panni: «bucato sui fili / più altri segnali femminili», ma non rinuncia mai, seppur dentro il cavallo di Troia dell’ironia, a cercare «l’illusione di un filo che legasse / non solo a te ma a ogni cosa sperata / ai grandi assenti, a eterni invisibilia». 



«Oggettività fulminea» ed «equivalenza spaziotemporale»: queste le categorie stilistiche individuate da Prandi, che sono valide se si vuole eludere ogni punto di fuga metafisico, invece ben presente a partire dal titolo del libro di cui parliamo. Il «tranviere metafisico» della poesia eponima è un sogno ricorrente: guida un «tram senza rotaie / tra campi di patate e fichi verdi», ma non è solo il prodotto di quella che Maurizio Cucchi chiama «ironia fantaisiste», ma piuttosto la sede di una domanda nella quale il dolore è solo attutito dalla forma vagamente disimpegnata: «Già, ma allora? Sembra dica in excelsis / un’altra voce. / Altra?». Non si può ridurre la poesia di Luciano Erba a modello di minimalismo o lezioso agnosticismo.

Il «forse» che lasciava «aperto» il cerchio nella poesia «L’ippopotamo» è una corretta chiave di lettura che si può dare della sua poesia. Non si può dribblare il confronto con il timore, sarcasticamente esorcizzato dal poeta, che la «res» sia appunto segno solo di se stessa, e che la parola poetica, essendo «in re», sia solo, come diceva Anceschi,  «familiare e partigianesca nella fattura, una poesia leggera, musica da camera, orgoglio e timidezza di immagini esatte intensificate dal riferimento al qui e all’ora, il sentimento mai sovrapposto alla cronaca».

Questo oscuro timore teorico origina dunque la domanda di senso, alla quale Luciano Erba non può più sottrarsi nelle raccolte successive: «L’ipotesi circense» e soprattutto «Nella terra di mezzo», nella quale prende le distanze dal luogo comune della «Linea lombarda», scrivendo ironicamente: «Adoro i pregiudizi, i luoghi comuni / mi piace pensare che in Olanda / ci siano sempre ragazze con gli zoccoli». Ma ci potrebbe bastare una poesia come in «Soltanto segni?», dove Luciano Erba, riflettendo sul rapporto tra il mondo «creato» e la parola poetica, scrive: «Se quello che esiste è preverbale / luci linee colori senza nome / nient’altro che luce, linee e colori / come spiego Giovanni 1/1 / In principio era il Verbo […]?».