Nell’ambito della discussione sulla opportunità e sui contenuti di emanare una legge che definisca lo status e i diritti e i doveri delle coppie dello stesso sesso vengono avanzati molti argomenti, alcuni dei quali possono essere utilmente segnalati.

La tesi di fondo che sta emergendo con autorevolezza è che sia importante, doveroso, che questa legge venga fatta visti i ripetuti moniti provenienti dal potere giudiziario (Corte costituzionale, Corte europea dei diritti dell’uomo) e che, sempre seguendo le indicazioni della giurisprudenza, questa volta nazionale (Corte cost., sent. 138 del 2013) occorra tenere distinte le coppie di cui si discute dalla famiglia, definita in costituzionale come ente naturale fondato sul matrimonio. 



Una prima tesi che viene avanzata riguarda proprio la interpretazione di quest’ultima espressione; che significa “famiglia naturale fondata sul matrimonio”? Tutti concordano che la famiglia è, secondo la famosa espressione di Arturo Carlo Jemolo, “un’isola che il diritto lambisce solo sulle coste“; non spetta allo Stato entrare nell’ambito delle relazioni che in essa si esplicano, trattandosi di una realtà che riguarda la persona, e la persona viene prima dello Stato. 



Se così è, si potrebbe desumere che non spetti allo Stato neppure la definizione della famiglia e che il temine “naturale” voglia significare solo la piena acquiescienza a quanto avviene in seno alla società stessa. E, pertanto, se oggi la “famiglia” si sta disgregando in una molteplicità di forme (famiglie monoparentali, famiglie miste con figli di coppie con precedenti matrimoni) esse debbano essere recepite come tali e come tali regolamentate. 

Il che sta a dire, tuttavia, che nemmeno la regolamentazione è possibile, visto che — ad esempio — è evidente che le coppie di fatto rifuggono per decisione primigenia la regolamentazione, mentre la legge interviene contro la volontà dei contraenti per assicurare ai soggetti deboli le necessarie garanzie. Si potrebbe anche argomentare ulteriormente ma, in questa sede, preme sottolineare l’esistenza di questa tesi, su cui riflettere, e che si connette alla più volte rilevata tendenza alla privatizzazione dell’istituto familiare, considerato come un contratto in cui le parti scelgono à la carte i benefici più diversi che da tale contratto si aspettano, salvo scioglierlo nel momento in cui si cambi idea. Ricordo una discussione con un giovane studioso americano che avanzava l’ipotesi di lasciare totalmente alla società civile le decisioni in materia di famiglia, deregolamentandola in modo radicale e lasciando che si apra un confronto a tutto campo tra diversi modelli famigliari, confronto privo di riferimenti normativi. Resta quindi la domanda sul perché regolamentare e se invece non sia meglio entrare in merito con una legge che sia fatta sulla base di interessi, valori, tradizioni da conservare o altro ancora.  



Un’altra idea che si va diffondendo, figlia — in un certo senso — della prima, riguarda il senso morale della legge; la legge, si dice, non può fare riferimenti di natura morale, necessariamente soggettivi e fuori luogo in uno Stato che si proclama laico. La legge dovrebbe garantire la libertà, intesa in questo frangente come libertà di scelta, anche nel caso o forse proprio nel caso in cui si tratti di scelte personalissime, quelle relative all’intimità e all’amore. Avere una regolamentazione differenziata tra matrimonio e coppie omosessuali adombrerebbe una valutazione qualitativa delle seconde, viste come realtà di serie B, da tenere in disparte rispetto all’istituzione principe della famiglia naturale fondata sul matrimonio. 

Perché non è così? Perché non vi è, neppure recondito, un giudizio di valore nella richiesta di tenere distinte le due fattispecie, soprattutto in questioni riguardanti la filiazione e l’educazione dei figli? Anche questa questione mi sembra degna di riflessione e, se possibile, di una risposta adeguata, poiché questo sospetto rischia di inficiare la discussione e di impedire che emergano le vere motivazioni che stanno alla base della scelta, condivisa anche dalla giurisprudenza, di tenere distinti matrimonio e unione civile.