Che cosa cerchiamo in un’opera, uno sconvolgimento delle nostre concezioni o la loro conferma? Se su questo crinale si gioca l’antica contesa tra arte conoscitiva e arte decorativa, ciò vale tanto di più in quell’arte atipica che è l’arte della parola. Arte atipica perché non dotata — nel sentire comune — di una sua propria materialità e di suoi propri strumenti: non sono infatti, le parole, sempre le stesse? Quelle che usiamo tutti, sia per comprare il pane che per dichiarare un amore?
Un bel libro sull’opera critica e filosofica di George Steiner ci dà l’occasione per riparlarne, per tornare su queste faccende usate ma mai esauste. Scritto dalla giovane e attrezzatissima studiosa Cecilia Ricci, Leggere Babele. George Steiner e la «vera presenza» del senso (Mimesi, Milano 2015, 24 euro) ci accompagna infatti con fedeltà e cura dentro la genesi e l’evoluzione del pensiero dell’autore ebreo, focalizzandosi in particolare su quella che nel tempo ne è divenuta la cifra distintiva: l’intuizione della parola come “vera presenza”, come cosa tra le cose e non come etichetta che indica le cose. Cosa solida ed efficiente, dunque, come sa qualunque bimbo che venga preso in giro dai compagni e che conosce bene la differenza tra “avere le orecchie grandi” ed “essere come Dumbo”.
Proprio in virtù di questa realtà, di questa solidità percepita, Steiner lega il suo discorso a una scommessa metafisica: le parole ci sono perché il mondo c’è; e che il mondo e le parole ci siano è segno di una trascendenza, dell’esistenza di qualcosa che sta al di là del mondo e delle parole e che li precede. «La scommessa sulla trascendenza», sottolinea la Ricci, «è il punto iniziale dell’indagine steineriana perché costituisce la condizione di ogni atto creativo ed artistico così come la garanzia della corrispondenza tra linguaggio e mondo (p. 193)». Ed è perciò, che «accingersi a incontrare i grandi capolavori presuppone la nostra disponibilità a incontrare “la vera presenza” che li abita e che sconvolgerà per sempre l’apparato percettivo contribuendo a ridisegnare la cartografia delle nostre sensazioni (ibidem)». Come già scrisse T.S. Eliot parlando di John Donne, la corrispondenza tra parola e cosa provoca infatti in chi la vive un’esperienza, cioè «qualcosa che modifica la sua sensibilità (I poeti metafisici, 1921)».
Che cosa comportano le ipotesi di Steiner per la vita quotidiana di chi le parole le legge o le usa in modo quotidiano, senza pretese o interessi artistici? Che le riflessioni steineriane — nonostante siano ristrette alla civiltà del libro e quindi alla parola scritta, più che alla parola nelle sue diverse espressioni — tocchino questioni vive e interessanti la totalità degli individui, lo scopriamo nell’accusa all’epoca moderna di essersi mutata in civiltà del commento.
È il libro Vere presenze (1989, in italiano 1999), il luogo in cui questa accusa è condotta in modo più circostanziato. Nelle sue pagine, Steiner immagina una «città del primario», una civiltà ideale in cui sia bandita la letteratura secondaria, cioè la letteratura di commento e interpretazione ai testi. Una civiltà, quindi, in cui l’unica mediazione tra un oggetto e il suo interprete sia la loro naturale alterità.
Un testo, infatti, come una persona, è al tempo stesso un medium e un’alterità ultimamente irriducibile. E se il mantenimento di questa alterità è essenziale al nostro rapporto con il testo, la proliferazione del secondario asseconda invece l’illusione di poterlo sezionare analiticamente fino ad assimilarlo. Fino ad eliminare, cioè, quell’alterità necessaria tanto all’esistenza del testo, quanto alla nostra.
La nostra esistenza, certo: perché la percezione delle parole riguarda la percezione della realtà e lo scarto tra la mia percezione del significato e la percezione di qualcun altro è proprio ciò che garantisce l’esistenza dell’oggetto cui ci riferiamo. Se infatti, scrive ancora Eliot in Conoscenza ed esperienza nella filosofia di F.H. Bradley (1964, ma scritta tra il 1911 e il 1914) il mondo fosse fatto di esperienze solitarie reciprocamente inconoscibili e intrasmissibili, come faremmo, quando parliamo, ad accorgerci che stiamo parlando della stessa cosa? Se io, quando dico Coca Cola, penso a una bibita dolciastra e troppo gassata, mentre tu pensi alla bevanda più vicina all’ambrosia, che cosa — se non l’esistenza reale dell’oggetto e la permeabilità del mio mondo con il tuo — ci garantisce che stiamo parlando della stessa cosa? Che cos’altro ci garantisce, in ultimo, che il mondo c’è e che viviamo nello stesso mondo?
È la perdita di questa precedenza dell’oggetto rispetto alla parola che lo nomina, ciò che Steiner imputa alla nostra epoca, con la conseguenza deleteria di farci parlare di e attraverso parole secondarie e perciò vuote, prive ormai di referenza. Ma benché la sua analisi sia stringente, egli stesso — nelle stesse pagine in cui la contesta — apre involontariamente la strada alla secondarietà, quando parla della creazione artistica come di una «contro-creazione (Vere presenze, p. 194)». Identificando l’atto artistico come un atto di opposizione all’essere, Steiner condanna in fondo l’arte a farsi emendazione di una ferita, e non — come originariamente è — lode gratuita e innecessaria dell’esistente, e perciò piuttosto generatrice di una ferita: «Il battito della motivazione che ricollega la generazione di forme significanti al primo atto di creazione […] non è una mimetica in un qualsiasi senso neutro o docile. È di un antagonismo radicale. È una rivalità (ibidem)».
Questa posizione di rivalità con l’essere, l’idea della creazione umana come contro-creazione, sconta il debito di una concezione prometeica dell’uomo. Una concezione che — al di là e nonostante le intenzioni di Steiner — pone l’uomo e la sua natura religiosa in una condizione originaria di antagonismo con l’essere, anziché di venerante adorazione.
Ma se pensiamo a come nasce in noi un’intuizione, a che intima armonia scopriamo con i dati di realtà che ci precedono quando un’idea realmente nuova ci attraversa, non possiamo non sentire come falsa, o meglio, come già secondaria, questa descrizione dell’esperienza artistica — ma potremmo dire lo stesso di ogni atto creativo, di ogni iniziativa quotidiana che prendiamo. L’atto artistico non è un tipo di atto estrinseco all’azione umana, ne è piuttosto un paradigma. Perciò, così come ogni atto, più o meno consapevolmente, è un’affermazione dell’essere, così ogni atto artistico non può tendere, almeno in origine, a con-creare: ce lo insegnava l’uomo di Lascaux con la sua riproduzione gratuita e già mistica del mondo che attraversava. Ce lo insegna ancora oggi, in questa nostra vista granulare e analitica, il mistero sintetico della grande poesia, quando per un incontro miracoloso di arte e grazia ci viene improvvisamente restituito, in un misterioso e contingente ordine di parole, un ordine più profondo ed eterno.