L’edizione italiana di Wikipedia presenta Giovanni Damasceno come “un presbitero e teologo arabo”, nato nel 675 e morto (a Gerusalemme) nel 749. Confesso di provare un certo grado di perplessità nel vedere definito in questi termini un personaggio che è considerato come l’ultimo grande rappresentante della patristica greca, venerato come santo sia dalla Chiesa cattolica (che lo ha proclamato dottore della Chiesa nel 1890) sia dalle chiese ortodosse. La definizione in sé non è sbagliata, ma è lacunosa. E’ vero che Giovanni Damasceno appartiene a una famiglia araba: il nonno si chiamava Man?ur e godeva di prestigio nella corte del Califfo, che proprio a Damasco aveva posto la sua capitale, dopo l’assedio e la capitolazione della città nel 635. La trattativa per la resa, alla cui definizione, secondo alcune fonti, avrebbe partecipato lo stesso Man?ur, prevedeva clausole che, pur ponendo i cristiani in una condizione giuridicamente subordinata, lasciava loro un discreto spazio, permettendo di conservare i luoghi di culto e di praticare la loro religione (salvo il divieto di fare proseliti). In quanto infedeli e soggetti alla supremazia dei musulmani, i cristiani devono pagare una tassa, la dhimma, per avere la garanzia della sicurezza della persona e dei beni, e all’amministrazione di questo tributo provvede la famiglia di Man?ur: la mansione è tramandata di padre in figlio, cosicché prima il figlio di Man?ur, Sarjun, e poi Giovanni si trovano a occupare una posizione di rilievo nella corte degli Omayyadi.
Poiché tutta l’opera di Giovanni è scritta in lingua greca, dobbiamo chiederci se questi sia cresciuto in una famiglia bilingue o se il greco sia stato acquisito come seconda lingua. Le fonti non fanno chiarezza su questo punto, ma la scelta del greco è comunque significativa. Giovanni vive in un contesto culturale che vede un commercio linguistico intenso: oltre all’arabo e al greco (da secoli lingua della cultura e della scienza) ha un’importanza di rilievo il siriaco, lingua che all’epoca può vantare una fiorente produzione di testi cristiani, sia di traduzione sia originali ed è anche la lingua della liturgia. Per un arabofono nativo l’uso dell’arabo avrebbe comportato difficoltà, perché ancora mancava una tradizione di testi cristiani in questa lingua, ma il siriaco sarebbe stato sicuramente più prossimo, perché arabo e siriaco sono due lingue semitiche che, pur nella differente appartenenza a due rami diversi della stessa famiglia linguistica, presentano una più consistente consonanza e il siriaco già aveva consolidato una strategia per la resa della terminologia cristiana.
L’atteggiamento inizialmente tollerante con cui gli Omayyadi guardano i cristiani si deteriora progressivamente, e il Damasceno e la sua famiglia si trovano in un ambiente che diventa sempre più difficile. Ma nemmeno nell’ambito cristiano la situazione è favorevole. Alle varie eresie che da tempo circolavano e fomentavano contrasti e divisioni nelle comunità cristiane (la Siria era da sempre terra dove l’eresia monofisita di Nestorio aveva trovato terreno fertile e simpatie), si aggiungono le pretese egemoniche dei sovrani bizantini, che li portano a interferire nelle vicende interne della Chiesa, creando risentimenti e ostilità che coinvolgono anche l’Occidente e Roma.
Nel periodo in cui vive il Damasceno stava per scoppiare una delle più accese dispute che avrebbero lacerato la Chiesa orientale, la “questione iconoclasta”. Il dibattito sull’ammissibilità o meno delle immagini sacre aveva percorso il cristianesimo fin dai primi secoli: tesi contrarie alla diffusione delle immagini erano state sostenute anche da insigni personalità del cristianesimo, e persino da Papi, ma la cosa non era mai uscita dall’ambito di una discussione abbastanza serena. La polemica divampa nell’VIII secolo per una serie di cause concomitanti: la diffusione nelle regioni orientali di correnti eretiche che fanno della guerra alle immagini sacre un obiettivo d’importanza capitale, la presenza di vescovi che appoggiano questa dottrina e l’influsso dell’islam, che vieta ogni forma di rappresentazione di esseri viventi. Nella polemica interviene con mano pesante l’imperatore bizantino Leone III, che con una serie di divieti proibisce per legge diffusione e culto delle icone.
Non sempre la politica di Bisanzio si ispira a principi di correttezza: spesso preferisce le macchinazioni sotterranee. Il Damasceno, personaggio in vista e schierato in favore del culto delle immagini, finì per diventare l’incolpevole vittima di uno di questi intrighi: pare che Leone III avrebbe fatto pervenire per vie riservate al Califfo la falsa notizia di un progettato attacco a Damasco in cui era implicato il Damasceno. Questi non riuscì a difendersi dalle accuse, e il Califfo ordinò che fosse allontanato dalla corte e che gli fosse amputata la mano destra. Sembra che in seguito il Califfo, convintosi delle falsità delle accuse, volesse tornare sulla sua decisione e invitasse Giovanni a rientrare a corte, ottenendone però un rifiuto, perché questi aveva ormai scelto la vita monastica. Ritiratosi nella lavra di San Saba (presso Gerusalemme), fu ordinato prete in età avanzata (nel 735) e passò la seconda parte della sua vita nel raccoglimento e nello studio.
Tra le sue opere teologiche si segnala in particolare la Fonte della conoscenza, che è in realtà la raccolta di tre lavori, i Capitoli filosofici, il saggio Sulle eresie e il libro Sulla fede ortodossa. L’ultima parte è una vera e propria summa theologica, che raccoglie e sintetizza la dottrina cristiana e avrà un influsso notevole nei secoli successivi, sia nell’oriente greco sia nella scolastica latina, che poté apprezzare l’opera del Damasceno attraverso la traduzione severa e strettamente letterale del giurista pisano Burgundione. Alcuni studiosi moderni hanno ravvisato in queste opere una scarsa originalità: in molti casi il Damasceno si rifà a fonti precedenti che vengono citate alla lettera (senza virgolettature, cosa che ai nostri giorni appare colpa grave, ma allora non lo era!): ma il compito che il Damasceno si propone è quello di fare chiarezza e sintesi in un momento difficile in cui dottrine estranee sembrano insinuarsi, dall’interno e dall’esterno, nell’ambito ecclesiale.
La sua posizione a favore del culto delle immagini è insieme equilibrata e prudente, e mostra il carattere realista del cristianesimo, che sempre ama la visibilità e la concretezza: il cristianesimo è la religione del Dio che ha assunto la carne e si è fatto uomo, e immagini e reliquie non sono da adorare come valori in sé, ma rappresentano un richiamo palpabile alla storia della salvezza. Per usare le parole dello stesso Damasceno: «In altri tempi Dio non era mai stato rappresentato in immagine, essendo incorporeo e senza volto. Ma poiché ora Dio è stato visto nella carne ed è vissuto tra gli uomini, io rappresento ciò che è visibile in Dio. Io non venero la materia, ma il creatore della materia, che si è fatto materia per me e si è degnato abitare nella materia e operare la mia salvezza attraverso la materia. Io non cesserò perciò di venerare la materia attraverso la quale mi è giunta la salvezza» (Contra imaginum calumniatores, I, 16). Come ci insegna Benedetto XVI, che alla figura di Giovanni Damasceno dedicò una bellissima catechesi il 6 maggio 2009, «in collegamento con queste idee di fondo Giovanni Damasceno pone anche la venerazione delle reliquie dei santi, sulla base della convinzione che i santi cristiani, essendo stati resi partecipi della resurrezione di Cristo, non possono essere considerati semplicemente dei ‘morti’».
Negli inni e nelle omelie Giovanni Damasceno ci presenta tratti ancora diversi. In particolare alcune omelie mariane (sulla festa dell’Annunciazione e della Dormizione) ci rivelano nell’autore uno studioso che si accosta al mistero con affetto e partecipazione: sappiamo dalle fonti antiche che il Damasceno ebbe sempre una devozione speciale per Maria, da cui, secondo una pia leggenda tramandata da fonti antiche, avrebbe anche ottenuto la miracolosa ricrescita della mano amputata.
Le notizie sulla vita di Giovanni sono piuttosto tarde e non sempre affidabili. Pochi anni dopo la morte le sue opere in difesa delle immagini furono scomunicate dal Concilio iconoclasta di Hieria. Ma una trentina di anni dopo il concilio ecumenico di Nicea ne riabilitò completamente la memoria. La biografia più antica, opera di Giovanni di Gerusalemme (XI secolo), è in realtà la traduzione di un precedente testo scritto in arabo da un monaco Michele. L’interesse per il Damasceno dunque è vivo anche in ambiente arabo. Del resto, il suo discepolo e continuatore Teodoro Abu Qurrah, vescovo di Carre (in Mesopotamia), scrive un trattato in arabo in difesa delle immagini sacre.
I confini della comprensione (o addirittura della simpatia) fra mondo cristiano e mondo arabo-islamico sono talora più sfumati di quanto potrebbe apparire a prima vista, e i contatti quotidiani e la presenza negli ambienti della corte del Califfo lasciano presupporre un atteggiamento di serena apertura nei confronti dell’islam da parte del Damasceno. Ma i capitoli finali del trattato Sulle Eresie mostrano con quale chiarezza di giudizio questi si ponga di fronte all’islam. Mentre a tutte le altre eresie del passato e del presente viene dedicato un breve capitolo, alla “eresia Ismailita” viene dedicato uno spazio ben più ampio, con citazioni dal Corano, puntuale discussione di aspetti dottrinali e sottolineature delle differenze che intercorrono fra il Corano la Bibbia. L’appartenenza familiare (l’iconografia antica rappresenta il santo con la testa coperta da un turbante) e anni di collaborazione coi dignitari islamici non impediscono al Damasceno di affermare in modo equilibrato, ma intenso e vigoroso, la propria identità cristiana.