La traduzione è la via attraverso cui la tradizione viene rinnovata e rivitalizzata rendendo possibile che concetti che nascono in una cultura determinata possano trasformarsi e rigenerarsi in contesti e culture diverse. In questo senso la traduzione genera nuove idee trasformando quelle vecchie ma non dimenticando l’origine.
Tutte le traduzioni fanno questo, anche quelle bibliche. Fra i molti esempi che si possono fare, uno genera alcune domande ai non specialisti e riguarda una differenza terminologica fra la traduzione della Bibbia Cei e la traduzione della Bibbia in lingua corrente. Due traduzioni importanti: la prima perché è quella ufficiale della Chiesa cattolica, della seconda papa Francesco ha avuto modo di dire: “La traduzione preparata da evangelici e cattolici della Bibbia in lingua corrente ha fatto tanto bene e fa tanto bene. È un’idea buona, perché la gente semplice può capirla, perché è un linguaggio vero, proprio, ma vicino alla gente… Mi auguro che questo testo, che si presenta con il beneplacito della Cei e della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, spinga tutti i cristiani di lingua italiana a meditare, vivere, testimoniare e celebrare il messaggio di Dio” (Discorso ai membri dell’Alleanza Biblica Universale per la presentazione della Bibbia in lingua italiana “Parola del Signore. La Bibbia Interconfessionale in lingua corrente”, 29 settembre 2014).
Genesi 1, 9-10. Traduzione Cei:
Dio disse: “Le acque che sono sotto il cielo si raccolgano in un unico luogo e appaia l’asciutto”. E così avvenne. Dio chiamò l’asciutto terra, mentre chiamò la massa delle acque mare. Dio vide che era cosa buona.
Traduzione interconfessionale o in lingua corrente:
Dio disse: “Siano raccolte in un sol luogo le acque che sono sotto il cielo e appaia l’asciutto”. E così avvenne. Dio chiamò l’asciutto Terra e chiamò le acque Mare. E Dio vide che era bello.
Dunque, buono o bello?
Nel testo ebraico la parola che indica quello che vede Dio è tôb. Tôb ricorre 741 volte nell’Antico Testamento e copre sostanzialmente tre ambiti semantici: quello etico di buono, quello pratico di utile e quello estetico di bello. La Septuaginta innanzi a questa polisemia individua tre termini greci con cui tradurre l’espressione: agathòs, kalòs e chrestòs, che appunto possono significare bello, buono e utile.
Nel caso di Genesi 1, 10, come in tutto il capitolo 1, dove il termine appare sette volte, la Septuaginta sceglie appunto kalòs. La questione è che però le scelte traduttive non sono mai neutrali, perché i termini non sono isole ma parte di una rete di rimandi enciclopedici che aprono a nuove possibili strade.
Kalòs è uno dei termini chiave dell’estetica greca. Lo è già in Platone dove la relazione fra kalòs e agathòs è già fissata. In effetti il termine kalòs non corrisponde totalmente al concetto di bello con cui spesso lo traduciamo. L’area concettuale è non tanto più ampia, come ritengono alcuni, ma disegna un modo diverso di segmentare la realtà.
Kalòs infatti non riguarda solo la percezione che attraverso lo sguardo e l’udito ci mostra la bellezza ma alcune qualità razionali che definiscono l’essere uomo in quanto tale. È per questo che la bellezza ha un valore di verità che va alla radice dello stesso stare al mondo. Questo valore fondante lo si può trovare nelle concrete manifestazioni, come nella realtà della natura e nel corpo umano. La bellezza terrena ha dunque per l’uomo greco un valore fondamentale perché permette di mettere in contatto il mondo con l’assoluto. Tuttavia la bellezza non riguarda solo le proporzioni fisiche ma anche la proporzione degli atteggiamenti e comportamenti, è in questo senso che il bello è anche buono. È il concetto di kalogakathía, proprietà che appartiene a chi può mostrarsi contemporaneamente bello e buono. Ma anche da solo kalòs può indicare, al di là della mera bellezza fisica, qualcosa di più profondo che coinvolge una sfera etica. Del resto nel greco moderno kalòs significa ormai soltanto buono.
Dunque andando a scegliere il termine kalòs si mescolava al concetto ebraico un pezzo dell’enciclopedia estetico/etica greca che aveva sottolineato appunto il profondo collegamento fra bellezza ed essere. Elemento questo che verrà sviluppato dal successivo platonismo così che Plotino può sostenere che il bello è “la fioritura dell’essere”, in qualche modo ne rappresenta dunque il suo compimento.
Il greco del Nuovo Testamento eredita questa ibridazione fra il concetto ebraico e quello greco. Come ricorda Ravasi, il termine kalòs ricorre 100 volte ed è in pratica sinonimo di agathòs, con un’unica eccezione, quando Luca (21, 5) davanti al tempio erodiano di Gerusalemme dice che “alcuni parlavano delle sue belle pietre (lìthoi kaloì)”.
Dunque cosa è successo? Dal valore polisemico dell’ebraico si passa, attraverso l’innesto del concetto di kalogakathía, a uno slittamento che orienta decisamente verso un valore che lascia sottotraccia il concetto di bello. Così il termine passerà in area neotestamentaria a individuare un valore morale o un tipo di azione. Come ricorda sempre Ravasi, troviamo i concetti di “opere buone”, “buona condotta”, “buona coscienza”, e in tutti questi casi l’aggettivo usato è kalòs. Anche quando nel Vangelo di Giovanni (10, 11-14) Cristo si definisce come “buon pastore” il termine greco per “buon” è kalòs“, che ritroviamo per altri usi dell’aggettivo: ad esempio buon diacono, buon soldato, buoni amministratori, buon maestro.
In qualche modo potremmo dire che lo slittamento concettuale rintracciabile nella storia della traduzione di tôbconferma ancora una volta, come nel caso della concezione dell’essere o del logos, il fatto che il cristianesimo inaugura una nuova strada rispetto a ebraismo e mondo greco latino, e fa questo attraverso un’opera costante di traduzione che innova ma senza perdere l’origine.
Silvia Ronchey (La Stampa, 7 maggio 2008) ha scritto che il cristianesimo ha traghettato per strade sempre più complesse la concezione platonica del bello. Ha traghettato appunto, ha trans-ductum, trans-latum, ha trasportato da una parte all’altra prendendo su di sé il peso di una tradizione, l’idea che verità ed estetica si toccano.
Lo ricorda san Giovanni Damasceno riferendosi all’icona: «Se un pagano viene da te dicendo: “Mostrami la tua fede”, tu conducilo in una chiesa e mettilo davanti alle immagini sacre!» . Dunque nell’icona c’è tutto il senso fondamentale del cristianesimo, cioè il Dio fatto carne. Per il Damasceno non si può dipingere l’immagine di Dio perché non si può rappresentare l’ineffabilità. Ma nell’Incarnazione l’ineffabile ha avuto un corpo, con forma e colori.
È a partire da questa idea che non è più ebraica, né greca ma cristiana che possiamo tentare una comprensione di quanto Dostoevskij mette in bocca al principe Miškin nell’Idiota: “La bellezza salverà il mondo”.
Come esorta papa Francesco: “È bene che ogni catechesi presti una speciale attenzione alla “via della bellezza” (via pulchritudinis). Annunciare Cristo significa mostrare che credere in Lui e seguirlo non è solamente una cosa vera e giusta, ma anche bella, capace di colmare la vita di un nuovo splendore e di una gioia profonda, anche in mezzo alle prove. In questa prospettiva, tutte le espressioni di autentica bellezza possono essere riconosciute come un sentiero che aiuta ad incontrarsi con il Signore Gesù. Non si tratta di fomentare un relativismo estetico, che possa oscurare il legame inseparabile tra verità, bontà e bellezza, ma di recuperare la stima della bellezza per poter giungere al cuore umano e far risplendere in esso la verità e la bontà del Risorto. Se, come afferma sant’Agostino, noi non amiamo se non ciò che è bello, il Figlio fatto uomo, rivelazione dell’infinita bellezza, è sommamente amabile, e ci attrae a sé con legami d’amore (Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium,167).