Quando mi viene chiesta una riflessione sulle tematiche relative al fine vita, cerco di tenere presente che altro è avere davanti un foglio bianco nel quale riversare dati e considerazioni, altro è stare al capezzale di una persona sofferente, alla quale la sofferenza sembra diventata insopportabile. Spero sempre, però, di avere lo stesso rispetto e la stessa trepidazione in ambedue le situazioni.
Anche utilizzando questo “metodo di prudenza” nell’intervenire nel dibattito, come clinico non posso comunque non partire dai dati, che certo possono essere “pesati” in modo diverso, ma esistono.
Le tre posizioni a favore della legge sulla Morte volontaria medicalmente assistita (Mvma) – per ora la legge riguarda “solo” la modalità del suicidio assistito, non l’eutanasia, oggetto invece del quesito referendario – sono, in modo progressivo, così sintetizzati:
• “La Mvma va riservata ad un numero limitatissimo di situazioni cliniche ben definite, con controlli molto rigorosi”;
• “Io non lo farei mai, ma perché impedire a chi lo desidera di farlo, indipendentemente dal numero complessivo che poi risulterà?”;
• “La Mvma aumenta i livelli di libertà di una persona, senza nessun prezzo da pagare per tutti gli altri, ed è quindi un segno importante di civiltà di uno Stato”.
Purtroppo i dati dei paesi in cui la Mvma è già legale evidenziano che, man mano che il tempo passa dopo la legalizzazione, vi è un incremento dei numeri assoluti e delle tipologie di malattie per le quali viene richiesta la Mvma. Il “prezzo da pagare” consiste nel fatto che molte persone fragili e vulnerabili siano “sollecitate” dal cambio di mentalità a chiedere una soluzione che altrimenti non avrebbero chiesto. Questa “spinta dolce” o “spinta sottile” (nudging) della mentalità di una società è stata studiata e documentata ampiamente, evidenziando fino anche possibili aree cerebrali attivate nel processo di convincimento “indotto”.
Altri dati evidenziano che le cautele e limitazioni vengono presto superate: se un iter autorizzativo della Mvma prevede valutazioni psicologiche, poi nella pratica esse non vengono effettuate, oppure se cure palliative che dovrebbero essere garantite a tutti, in realtà non sono somministrate, e così via.
Inoltre, è stato rilevato in Olanda il passaggio da eutanasia come “soluzione di ultima risorsa” a “modo più immediato di morire” (Report di Theo Boer, Groningen, march 22, 2016). E’ stato anche descritto, nei paesi ove la Mvma è presente, un aumento, anziché l’ipotizzata riduzione, dei suicidi “razionali” per quello che è stato identificato come “contagio suicidiario” (How does legalization of PAS affect rates of suicide? Jones DA, South Med J 2015; 108: 599-604). Gli autori pro eutanasia hanno dovuto, a un certo punto, effettuare quello che è stato chiamato un “cambio di prospettiva”: dal riportare un “non incremento della pratica dopo la sua introduzione “(dell’eutanasia) a (visti i numeri) “una opzione in più nella scelta positiva dei malati”. (Recent trends in euthanasia and other end-of-life practices in Belgium Chambaere K, N Engl J Med 2015; 372: 1179-1181).
D’altra parte, la veloce progressività è esemplificata anche in Italia, dove la proposta di legge basata sulla sentenza della Consulta prevedeva, comunque, che il suicidio assistito fosse “permesso”, almeno teoricamente, in una fattispecie di limitate e ben determinate condizioni, mentre nel referendum sull’eutanasia diventa vero il contrario, ovvero che l’omicidio di consenziente è sempre consentito, ad eccezione di alcune situazioni particolari.
Poi ci sono caratteristiche e punti precisi normativo-legali e clinico-sanitari. Di seguito ne vengono accennati alcuni. Nella proposta di legge si parla di richiesta di Mvma possibile dopo che il malato sia stato “coinvolto” in una proposta di cure palliative, ma le abbia rifiutate; non è del tutto chiaro se le debba “avere provate”, o se è sufficiente che siano state accennate, e rifiutate senza un’attuazione, neanche limitata nel tempo. Il malato può chiedere la Mvma se è tenuto in vita da trattamenti di supporto vitale, tra cui le normative italiane prevedono anche la nutrizione e l’idratazione artificiali.
I pazienti, però, hanno già a disposizione (legge 219 del 2017) la possibilità di rifiutare o revocare il consenso a tutti i supporti vitali, e quindi di far procedere la malattia in modo “spontaneo”, fino all’esito finale, che, se caratterizzato da sintomi gravi, può giovarsi di una sedazione per il controllo dei sintomi intollerabili. E’ possibile che il “livello di artificialità” necessario alla richiesta sia alzato o abbassato, a discrezione del giudice. Il sostegno psicologico al paziente è, al momento, nella bozza di legge in discussione, considerato facoltativo, non un passaggio obbligatorio o comunque fortemente raccomandato. Non si fa cenno al sostegno della trama amicale e/o della società civile, vicina spontaneamente o in modo organizzato. L’obiezione di coscienza dei sanitari è prevista e rimane, a mio parere, un aspetto irrinunciabile.
Infine, un problema reale è che il decreto legge 73/2021 Sostegni Bis prevede un programma triennale di sviluppo delle cure palliative. Ma l’attuazione di tale programma deve essere effettuata senza “nuovi o maggiori oneri”, cioè pare che i soldi per sviluppare le cure palliative debbano essere tolti da un’altra parte e messi sulle Cp, senza “finanziamenti aggiuntivi”. Se così fosse, la diffusione sistematica delle cure palliative sul territorio nazionale sarebbe tutt’altro che garantita.
La fondatrice del moderno movimento hospice Dame Cicely Saunders si dedicava quotidianamente alla cura dei malati e non interveniva di frequente nel dibattito pubblico. In una lettera dal 1995 scriveva: “Dovesse passare una legge che permettesse di portare attivamente fine alla vita su richiesta del paziente, molti dei ‘dipendenti’ sentirebbero di essere un peso per le loro famiglie e per la società e si sentirebbero in dovere di chiedere l’eutanasia (…) ne risulterebbe come grave conseguenza una maggiore pressione sui pazienti vulnerabili per spingerli a questa decisione, privandoli così della loro libertà”.
Il clinico, consapevole di questa realtà, può offrire alla persona fragile un rapporto di cura che sia percepito come più affascinante della Mvma. Alla sofferenza globale della persona ammalata può proporre un’ipotesi di risposta che preveda una “presenza accanto” e un’ipotesi di significato immanente anche alle giornate, ai mesi e agli anni di vita sofferente.
Che la persona ammalata passi da un vissuto di dipendenza come condizione di vita insopportabile, a condizione di possibile ricerca e contatto con la profondità del vero, non può essere dato per scontato, né per automatico, ma può essere sperimentato, in modo imprevisto e affezionato.
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