Quando un regista affermato annuncia il suo prossimo progetto, la mera presenza del suo nome accanto al titolo porta con sé un carico di aspettative: se si tratta di Quentin Tarantino daremo per scontata l’ultraviolenza e la presenza di dialoghi brillanti, mentre “diretto da James Cameron” spinge a immaginare un tentativo di innovazione tecnologica, che sia negli anni ’80 con Terminator o ai giorni nostri con Avatar 2.
Ma cosa succede se certi tratti distintivi di un autore finiscono per oscurarne altri pregi? Se l’autore della truculenta “trilogia della vendetta”, che mette in scena combattimenti iconici e misteri avvincenti, fosse sempre stato un abile scrittore di drammi romantici? Basterebbe togliere sangue ed erotismo per far emergere un tale pregio, ed è da questo intento che nasce Decision to Leave.
Hae-Jun (Park Hae-il), detective tormentato dall’insonnia, indaga sulla morte di un funzionario (Yoo Seung-mok) e individua come principale sospetto la moglie di lui, Song Seo-rae (Tang Wei). Con il passare del tempo, tuttavia, Hae-Jun finirà per avvicinarsi alla donna, creando un legame che metterà a rischio il caso e la sua stessa vita.
L’incipit è tipico del noir: un mistero da risolvere, una donna affascinante e misteriosa che farà vacillare il nostro eroe, toni cupi e malinconici al tempo stesso. Su tutto domina la nebbia, tratto distintivo della cittadina del protagonista e titolo di una canzone ricorrente; la fotografia è gelida, umida, tendente ai toni del verde e dell’azzurro, colori densi di significati simbolici. L’atmosfera ipnotica è in perfetta sintonia con le scelte del film, che mette l’indagine in secondo piano per sviscerare il rapporto morboso tra Hae-Jun e Song Seo-Rae: come il detective protagonista ci approcciamo al primo atto aspettandoci una risoluzione catartica, salvo poi cadere in una spirale di autodistruzione e rimorsi che non può che finire in un modo.
Se Park Hae-Il spicca come brillante agente non privo di insicurezze e Song Seo-rae come enigmatica presunta omicida, la loro performance si scontra con una notevole barriera linguistica: la femme fatale, essendo di origine straniera, parla un coreano antiquato che ha imparato guardando fiction storiche in televisione, e questo suo modo di esprimersi colpisce il protagonista, colorando i loro scambi di una sfumatura indebolita dall’adattamento. Nonostante ciò, i due sono aiutati da un solido cast di comprimari capace di riservare qualche momento più leggero e dalla mano di Park Chan-Wook.
Il regista coreano continua a riservare sorprese, con movimenti di camera audaci e particolarmente vistosi che risultano funzionali a illustrare i temi dell’opera: riprese effettuate da dentro lo schermo di un telefono ne evidenziano la natura di scrigno custode dei nostri pensieri, mentre transizioni temporali in piano sequenza rendono lo scorrere dei giorni indistinto, come in un sogno. Decision to Leave omaggia il cinema di Alfred Hitchcock, con situazioni che rimandano sia a La donna che visse due volte che a La finestra sul cortile, e i precedenti lavori del regista, come Oldboy, da cui riprende l’idea di mostrare il detective presente all’interno delle sue ricostruzioni. Tali rimandi si intersecano a una miriade di simboli, che non risultano mai eccessivamente criptici a dispetto della loro densità, e a una varietà di ambientazioni di rara bellezza: la vicenda si trascina dalle strade di Busan alle cime innevate, fino a insabbiarsi sulle sponde del mare, nascondendo per sempre i segreti dei due protagonisti.
Il ritmo della pellicola, funzionale alla sua anima di dramma romantico, rema contro la componente poliziesca/mistery. Park Chan-Wook intendeva distaccarsi dai toni della sua “trilogia della vendetta”, ben più violenta ed esplicita, per concentrarsi sull’aspetto relazionale, ma se nel sopracitato La donna che visse due volte la costruzione del mistero mantiene l’attenzione dello spettatore, Decision to Leave manca deliberatamente di un vero e proprio colpo di scena. La dinamica su cui si regge il film viene rivelata man mano, ma mai stravolta: lo spettatore che non viene stregato dalle sue nebbie si troverà presto a chiedersi se una storia del genere non avrebbe potuto essere raccontata in maniera più asciutta, al netto di un concept tanto perturbante quanto semplice.
Anche se potrebbe non lasciare del tutto soddisfatti a una prima visione, Decision to Leave è un’opera capace di imprimersi nella memoria dello spettatore, che si troverà ammaliato dalla sua narrazione ben oltre la sua permanenza in sala. Un film unico nella sua delicatezza, e uno dei più validi dell’anno per quanto concerne regia e montaggio.
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