Quella della giustizia non è solo crisi di efficienza! Sono del tutto d’accordo. Né si può attenderne la soluzione esclusivamente da una migliore organizzazione dei servizi giudiziari. È necessaria una “rifondazione di senso”, dite voi! E, ancora, sono del tutto d’accordo. Ma mi chiedo: Significa solo stigmatizzare il fatto che i politici, tutti i politici dalla sinistra alla destra e dalla destra alla sinistra, hanno strumentalizzato la crisi per coprire pressioni di gruppi di potere? Significa solo stigmatizzare la strumentalizzazione del ruolo istituzionale da parte dei magistrati, in particolare da parte di alcuni pubblici ministeri, per operazioni che “esulano dall’idea stessa di giurisdizione”? Credo che sarebbe riduttivo e mi pare che anche voi lo riteniate, riduttivo. Il riferimento al richiamo di papa Benedetto perché si recuperi la “sensibilità alla verità”, che non può essere sopraffatta dalla “sensibilità per gli interessi”, è significativo. Tutto questo mi fa pensare a qualcosa di più radicale, che riguarda un po’ tutti, quanti operano nella giurisdizione ma anche quanti alla giurisdizione si rivolgono per avere soddisfazione. Non dimentichiamo che, come si legge nel libro della Sapienza, anche l’empio rivendica quello che gli spetta: “questa è la nostra parte” (Sap 2, 9).
Che cosa si chiede al giurista quando a lui ci si rivolge per risolvere una lite? Per stringere in una formula, direi che gli si chiede di “trasformare il conflitto in controversia”. Talvolta, in buona o in mala fede, potrebbe equivocarsi che il litigante chieda al giurista d’essere suo complice nel conflitto. Non è così. Come complice, il giurista vale molto poco, anzi non vale nulla; un mafioso è molto più efficace, ha strumenti più incisivi, garantisce risultati più certi; ma a quale prezzo? A chi lo advoca, ossia lo chiama in aiuto, il giurista, in quanto parácletos, è impegnato a dare supporto per superare il conflitto, che è contro natura, prodotto di una debolezza, di una deficienza, di una rottura della relazione interpersonale. Dal giurista il litigante viene condotto a passare dalla rivendicazione di un dominio, sinteticamente rappresentabile con l’affermazione apodittica: “questa cosa è mia”, al riconoscimento della ragioni che sostengono la sua pretesa, configurabile sinteticamente con l’argomentazione dialettica: “questo è mio diritto”. In tal modo si pongono le basi perché la relazione, compromessa dal conflitto, si ricomponga.
Perché, dialetticamente, la controversia si risolve mediante il riconoscimento, sempre inesausto e rivedibile ma autentico se convenientemente condotto, di ciò che è proprio di ciascuno dei contendenti, ossia di ciò che diversifica l’uno dall’altro. Ma è altresì chiaro che nella controversia tale diversità può essere definita solo a partire da ciò che ciascuno dei contendenti ha con gli altri in comune, ossia la naturale disposizione all’ordine, per la quale è proprio dell’essere uomo il suum cuique tribuere.
Per spiegarmi meglio mi aiuterei con alcune considerazioni del teologo Ratzinger a proposito della metánoia cristiana, suggerite dall’idea di cambiamento di cui la metánoia cristiana è carica. La conversione, infatti, designa un movimento mediante il quale l’uomo si stacca dal proprio Io per poter accedere alla comunione con Dio, un movimento di rottura radicale per il quale sono necessari un coraggio ed una determinazione affatto particolari poiché il soggetto si trova a dover fare i conti, per così dire, con due forze di gravitazione, quella dell’interesse particolare, dell’egoismo individuale, e quella del bene in generale, della Verità e dell’Amore, e deve decidere di sottrarsi all’attrazione della prima per lasciarsi prendere totalmente dalla seconda. Ora, mutatis mutandis, nell’esperienza giuridica della controversia la situazione presenta delle singolari e suggestive analogie, poiché chi vi accede, o come attore o come convenuto – uso i termini in senso lato e quindi a-tecnicamente – è inevitabilmente chiamato a confrontare le proprie ragioni, di parte, con le ragioni altrui, anch’esse di parte, nella prospettiva di attingere, da un confronto correttamente condotto secondo le regole dell’arte dialettica, la verità che è e non potrebbe non essere comune alle parti senza essere esclusiva di nessuna di esse.
Tutto questo implica per chi accede alla controversia giuridica il coraggio di rompere con la particolarità della propria opinione per riconoscersi nella comunanza del vero; implica il coraggio di sottrarsi alla forza di gravitazione dell’egocentrismo individuale per lasciarsi attrarre dalla forza di gravitazione del bene comune. In altri termini implica una vera e propria conversione. Ed è a questa conversione personale che deve mirare il giurista, quale che sia il suo ruolo nell’ambito del processo di ordinamento delle relazioni interpersonali, sia esso avvocato o magistrato, procuratore o giudice. Questo è essenziale perché la “giustizia” funzioni. Singolare sorte di questo termine, “giustizia”, che noi usiamo indifferentemente per indicare un procedimento e un contenuto, uno strumento e un fine!
Per non rimanere nell’etereo dell’intellettualità, formulerei l’auspicio che si istituisse finalmente una scuola di avviamento alla professione forense in cui si formassero assieme, prima della specializzazione dei ruoli, i futuri avvocati e magistrati. Perché comune è la ragione del loro esserci nella società: suum cuique tribuere.