Il mistero è un meccanismo fondamentale in una moltitudine di storie, indipendentemente dal medium e dal genere. Dove si nasconde l’Arca dell’Alleanza, e cosa cela al suo interno? Chi ha ucciso Laura Palmer?
I misteri chiamano in causa la parte di noi che è sempre in cerca di risposte, nel tentativo di far quadrare tutto ciò che ci viene presentato. Al set-up, indizi e stranezze che rivelano l’esistenza di un qualche segreto, fa necessariamente seguito un pay-off, la rivelazione che si ricollega a quanto mostrato in precedenza. Un film può decidere di negarcela (Zodiac), oppure di mostrarla tramite un colpo di scena che per quanto incredibile risulta perfettamente inserito (Il Sesto Senso). Molte altre volte, il cosiddetto plot twist è un mero artificio per impressionare lo spettatore, che dopo qualche secondo di sbalordimento capirà quanto poco esso azzecchi con i quesiti inseguiti fino a quel punto. In quali di questi campi si sarà collocato quindi il mistero di Don’t Worry Darling?
Sono gli anni ’50, e Alice (Florence Pugh) vive una vita da sogno con Jack (Harry Styles) in una città aziendale nel bel mezzo del deserto. Ogni mattina Jack e gli altri uomini lasciano la città per lavorare alla progettazione di “materiali speciali”, lasciando le mogli a pulire, fare shopping e rilassarsi. Una vita perfetta, per l’epoca, almeno fino a quando Alice non comincia a soffrire di allucinazioni e a essere coinvolta in fenomeni inspiegabili. Quando una famiglia di vicini scompare dopo aver messo in dubbio la facciata idilliaca della comunità, Alice dovrà remare contro marito, amiche e l’enigmatico fondatore Frank (Chris Pine) per scoprire cosa si cela davvero dietro al progetto Victory.
Chi è familiare con i precedenti ruoli di Florence Pugh avrà sentito echi di Midsommar in questa premessa, e non a torto. La giovane attrice britannica torna a interpretare un personaggio in cerca di risposte, messo a confronto con una comunità che nasconde terribili segreti dietro la promessa di una vita migliore. E la città-azienda di Victory appare effettivamente come un piccolo paradiso: villette a schiera sempre baciate dal sole, vestiti sempre nuovi coperti dall’amministrazione, cibo in abbondanza nonostante il deserto che vi si stende intorno per miglia e miglia. La bellezza dell’ambientazione è resa tanto dalle scenografie quanto dai costumi e dalle musiche, brani d’epoca che danno vita a una versione idealizzata degli anni ’50, dove tutti sono belli e la vita scorre senza sforzi né sofferenze. La colonna sonora originale, tuttavia, racconta una storia ben diversa: composta più da suoni che da musica vera e propria, essa preannuncia e fa da sfondo alle visioni della nostra protagonista, deliri che la separano dalla sua compagnia rivelando realtà recondite della sua mente.
Da mogliettina spensierata e soddisfatta del suo ruolo, Florence Pugh diventa una scheggia fuori controllo, incapace di conciliare gli episodi bizzarri in cui viene coinvolta con la serenità dei suoi cari, primo fra tutti il marito. Harry Styles sarebbe potuto risultare innocuo, nel suo ruolo di coprotagonista, ma posto di fianco alla Pugh, che esprime il malessere e l’angoscia del personaggio come pura emozione, fa una figura che definire barbina è essere gentili. D’altro canto non credo che il nostro uomo sia stato scelto per le sue doti attoriali, e a giudicare dal numero di ragazzine che hanno riempito la sala direi che la scelta ha asservito al suo scopo. A non risultare un cane maledetto è invece Chris Pine, che con il suo sorriso a trentadue denti e lo sguardo brillante si cala al cento per cento nel ruolo del misterioso guru e potenziale burattinaio Frank. Una performance affascinante, nonostante il minutaggio limitato, e le conversazioni-duello tra il suo personaggio e Alice costituiscono senza dubbio il punto più alto della pellicola sul versante attoriale.
Assistita da un montaggio dinamico e intelligente, Olivia Wilde conferma il suo talento per la regia, sfruttando la macchina da presa per tramutare in immagini le tematiche della pellicola. Ma nonostante il talento e il valore produttivo dietro a Don’t Worry Darling, due sono le criticità mortali che emergono dalla visione. La prima è il ritmo della pellicola: glaciale nel secondo atto, che reitera momenti inquietanti e crisi della protagonista senza rivelarci niente di nuovo, schizzato nel terzo, che arriva senza una vera progressione e conclude il film in maniera insoddisfacente. Il secondo difetto, senza troppi giri di parole, è che non torna niente: i misteri che fanno capolino nella prima metà non trovano risoluzione, o se la trovano è deludente e contorta. L’aspetto thriller si rivela composto per il cinquanta percento da buchi, e per l’altro cinquanta da soluzioni già viste, un pastiche di film celebri che non posso citare per evitare anticipazioni.
Fa sempre un certo effetto vedere produzioni dotate di un ottimo comparto tecnico, attori di spessore – almeno alcuni, in questo caso – e una montagna di budget che poi si schiantano malamente sul fronte sceneggiatura. La struttura del mistero, con la sua progressione, false piste e svolte inaspettate, è un aspetto fondamentale in un thriller del genere; senza di esso gli altri pregi della pellicola, come la tematica femminista appena accennata, sono destinati a vedersi indeboliti.
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