Caro direttore,
Sono primario di Otorinolaringoiatria e direttore del Dipartimento chirurgico dell’Ospedale “E. Bassini” di Cinisello Balsamo (Milano). Un giornalista, dopo i fatti accaduti alla Santa Rita, mi ha chiesto se, come medico, mi sentivo un “mostro”. Ho risposto che, invece, ho provato grande dolore per tutti e per me. Mi sono poi sorpreso ancor più “uomo” nell’affrontare il rischio quotidiano che la mia professione richiede.
Lavoro in un ospedale “statale” e non mi sento schiavo di un sistema. Ho piena soddisfazione e stima di questo sistema sanitario, che non può e non vuole espropriare il mio ruolo di professionista, ma renderlo più consapevole e capace di considerare anche “fattori” della cura che non sono solo clinici. Penso che il centro della professionalità risieda nella persona e non nel sistema, altrimenti non si capirebbero grandi medici che operano anche in condizioni disastrose.
Nulla della mia arte medica e della mia umanità si sente espropriato. Non mi considero un impiegato statale, né tanto meno un burocrate, e questo è testimoniato dalle persone che curo, dai colleghi con cui lavoro e dagli studenti ai quali insegno.
Svolgo anche la mia libera professione come consulente della Fondazione Moscati di Milano, opera di cui sono anche presidente, con grande gratitudine, onore e soddisfazione. In questa mia avventura mi sono sempre sentito molto aiutato dal fatto di lavorare in un ospedale statale, che non ostacola certo questa mia professionalità e carità.
Sono convinto che la legge 31 della Regione Lombardia del 1997 abbia interpretato fino in fondo le problematiche di quel momento storico ed abbia portato ad un “livello sanitario” eccellente con un quasi utopistico pareggio di bilancio.
Certo, come ogni tentativo umano ha vissuto e vive le sue contraddizioni ed i suoi errori. Per questo, dopo 10 anni, credo sia opportuno un lavoro di revisione e di rilancio, forse con una nuova riforma che tenga conto dei “nuovi tempi”, dentro cui non sia protagonista l’azienda, ma una comunità di operatori che si prendono cura, dove i professionisti non siano “tentati” da facili guadagni, ma dove l’onorario renda veramente onore alla nostra debolezza umana che, incapace di vedere l’esito finale del nostro lavoro, il bene, deve essere “consolata” da un bene più effimero ed immediato che ci dia parziale soddisfazione; dove non ci si perda economicamente, ma dove l’utile non sia profitto ma nuovo investimento, diretto nella cura, nella formazione, nella ricerca e nella tecnologia. E dove si abbia il coraggio di non denunciare come una “cattiveria” ogni errore umano solo per specularne.