«Siamo una società cooperativa nata dieci anni fa per proporre soluzioni di information technology: assistenza hardware e software, sistemistica, soluzioni di infrastruttura tecnologica e sicurezza. Ma qualcosa non ha funzionato» dice uno dei soci fondatori. Nella voce, l’amarezza di una storia imprenditoriale che non è andata per il verso giusto, ma anche la consapevolezza che le cose vanno sempre diversamente da come si vorrebbe. E di aver tentato il tutto per tutto, fino a rinunciare allo stipendio.



«Siamo di Padova. I clienti sono principalmente qui, nel Nordest. Lavoro con l’estero? Poco o nulla, alcune eccezioni legate alla vecchia storia imprenditoriale dei diversi soci. Il fatturato? In calo: due anni fa eravamo sul milione e mezzo di euro, adesso si è drasticamente ridotto a circa un milione. Va così».



Come siete arrivati all’attuale situazione?

Non abbiamo fatto tutte le scelte giuste e alcuni errori ci hanno penalizzato. Non siamo stati capaci di riconvertire alcuni asset al momento giusto. È come se non avessimo focalizzato alcune esigenze-chiave dei clienti, cercando di venire loro incontro e di anticiparle. Col senno di poi avremmo potuto inquadrare molto meglio alcune prospettive strategiche e quindi di investimento. Risultato: ci siamo trovati con un core business non era più adeguato alle necessità del mercato.

E cos’è accaduto?

È presto detto. Calo di ordini, difficoltà a rientrare con le banche. e poi è arrivata la crisi, che ci ha sorpresi già in difficoltà. È stata una mazzata. Il periodo peggiore è stato tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009.



A quel punto che cosa ha pensato di fare?

Quando l’azienda va male il contraccolpo psicologico è immediato. La difficoltà dell’azienda diventa subito difficoltà personale, le motivazioni entrano in crisi. Ad un certo punto è diventato chiaro che l’unica prospettiva era quella di una chiusura totale, portando l’azienda al fallimento. Ho sentito la responsabilità di non mandare a monte tutto. Ora la situazione è in parte migliorata, ma posso dire in tutta franchezza che è un’esperienza che segna per sempre.

Avete trovato una soluzione?

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Ho fatto una scelta drastica, optando per una soluzione che salvaguardasse il maggior numero di posti di lavoro: quella di mettere sul mercato i migliori asset dell’azienda – uno tecnico e l’altro gestionale -, cercando dei compratori. L’operazione sta riuscendo. Ma anche questo, mi sono reso conto, non basta.

 

Perché? Non è convinto di aver fatto la scelta migliore per l’azienda?

 

No, parlo di una posizione personale. Il vero imprevisto è stata la disponibilità che ho incontrato in alcuni soci. Alcuni sono usciti, altri sono rimasti implicandosi in prima persona. Quasi a dire: l’azienda non serve solo a creare benessere, perché è un’opera; è opera nostra. Ecco, l’azienda deve molto a un’amicizia.

 

Un’amicizia?

 

Sì. Si può assumere un manager o trovare la ricetta giusta per limitare i danni, ma il vero valore aggiunto sta in un approccio personale, diverso, al problema che si deve affrontare. Ho avuto la fortuna di poter contare su persone, anche al di fuori dell’azienda ma questo non importa, che mi hanno sostenuto e incoraggiato nelle scelte da prendere. Non si sono messe al mio posto a risolvere i problemi, ma hanno condiviso con me una fase difficile.

 

Sui giornali hanno grande spazio le storie di imprenditori e di aziende, soprattutto di piccole dimensioni, che non ce la fanno e che cercano di mettersi insieme per far sentire la loro voce ai politici. Qual è il rischio più alto per tanti imprenditori in una situazione come la sua?

 

La solitudine e l’individualismo, la pretesa di far tutto da sé. Il rischio è quello che uno viva il fallimento dell’azienda come un fallimento personale. Per me questo rischio non c’è stato, perché nel sostegno degli amici imprenditori ho capito che salvare l’impresa era qualcosa di più di un’operazione riuscita, era innanzitutto un’occasione personale. Naturalmente uno può anche dire: vendo tutto al miglior offerente, è libero di farlo, molti lo fanno. Non mi importa di biasimarli, né ho la pretesa di avere in tasca la ricetta giusta. A me importava di trovare una soluzione, anche a costo di un grosso sacrificio personale.

 

Quale sacrificio?

 

Quello di rinunciare personalmente allo stipendio pur di salvaguardare posti di lavoro. Non è stato masochismo, ma l’unica cosa che mi sono sentito di fare di fronte ad una situazione grave e stringente. Il risultato è stato quello di non appesantire ulteriormente i conti. Se l’imprenditore è colui che trae il maggior profitto quando le cose vanno bene, dev’essere il primo a mettersi in discussione quando non è così.

 

Prima diceva che sta trovando degli acquirenti e che c’è uno sbocco positivo. È così?

 

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Sì. Una nuova società è entrata, ha assunto i dipendenti che erano stati messi in mobilità, e ha avviato la loro riqualificazione aziendale e professionale. Sarà possibile ristrutturare l’offerta e quindi fare quel lavoro che erroneamente non è stato fatto prima. Le prospettive ci sono, anche se non a brevissimo termine. Ora occorre veicolare questa operazione senza traumi.

 

Nell’ultima Assemblea nazionale della Compagnia delle Opere Julián Carrón ha criticato fortemente l’individualismo come una delle principali tentazioni del nostro tempo, basata sul presupposto che «io raggiungo meglio il mio bene se prescindo dagli altri». Che ne pensa?

 

Sono d’accordo, e le posso confermare che la mia esperienza dimostra che è vero il contrario: a Padova ho avuto la fortuna di avere vicino persone che mi hanno aiutato a portare la responsabilità operativa e strategica di certe scelte. Gratuitamente, per un interesse a me come persona e non per tornaconto. Non si tratta tanto di “fare rete”. Fare rete è un’espressione di moda, si può fare rete per tutto, ma quello che serve davvero oggi è un aiuto reale: gente che si tira su le maniche, che dà una mano a trovare acquirenti e a rivedere i conti, fare uno studio per presentare alle banche un piano di rientro.

 

A proposito, le banche. Sono il tema più controverso del momento. Lei cosa può dire?

 

Da imprenditore ne ho un’opinione sempre più negativa. Dicono di voler aiutar gli imprenditori ma non lo fanno, sono invece brave a chiedere firme per impegnare i beni o per fideiussioni personali. Dispiace dirlo, ma se molte società falliscono è proprio per merito loro, perché se uno nel momento di difficoltà cerca aiuto e non lo trova, chi ha i soldi sono proprio le banche.

 

Le rispondono: non possiamo dare credito a tutti.

 

D’accordo. Ma se sono già esposto e non so rientrare, o la banca ci rimette tutti i soldi che mi ha prestato, oppure, se ci sono buone garanzie anche fondate, perché no, su una conoscenza personale, perché non può aver fiducia nell’operazione e aiutarmi a rientrare?

 

Secondo lei è una situazione comune a molti imprenditori?

 

Per quello che ho modo di vedere nel territorio e tra le persone con cui ho rapporto, tra gli imprenditori sono odiate. Per fare certe operazioni di credito occorrerebbe un ragionamento di lungo periodo, ma è proprio quello che non fanno. Noi stessi abbiamo crediti consistenti che non ci vengono saldati. La risposta delle banche? Sono problemi vostri.

 

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