Anche nel ricco Veneto, in una delle province più industrializzate e più ricche d’Italia, la crisi c’è e si sente. Calo degli ordini, richieste di Cig in aumento, stretta creditizia, la crisi è arrivata e le Pmi locali tentano di attutire come possono le conseguenze di una crisi economica della quale – eccezion fatta per il ritardi strutturali che il nostro paese deve purtroppo addebitare a se stesso – non abbiamo responsabilità. Così, mentre i governi sono alla ricerca di misure per non far saltare i bilanci pubblici e cercano fondi da destinare a misure anticrisi la cui entità si rinuncia ormai a definire, per non essere costretti a smentirla, pare, nelle aziende, che l’unica sia attendere. Fare affidamento nella capacità di adattamento e compensazione delle piccole e medie imprese e attendere la ripresa della domanda, italiana e mondiale.
A Campagnola di Zevio, poco fuori Verona, Ici Caldaie progetta e costruisce caldaie e impianti termici di grandi dimensioni. «La crisi si avverte eccome, e lo si vede dal calo di commesse: quasi tutti i nostri clienti hanno un calo nei ritiri nella media del 20-25 per cento, con punte anche del 50 per cento». Nonostante questa contrazione, Ici non ha mai smesso di sviluppare progetti innovativi. «Tagliare le spese per ricerca e sviluppo? No, anzi dovremo incrementarle, perché l’avvenire è delle cose nuove, non della vecchia caldaia».
A parlare è Remigio Lucchini, fondatore dell’azienda. «A 24 anni, con in mano un diploma di perito meccanico – racconta – sono entrato in società con due persone che facevano già qualcosa nel settore calderario. Era il 1960-’61, abbiamo iniziato praticamente da zero, facendo scaldabagni e caldaiette a legna, di quelli rudimentali che si vedevano nelle case di campagna». Cinquant’anni dopo le aziende sono due: «la Ici, che ha continuato con le caldaie – spiega Lucchini – e Verona Lamiere, sorta all’inizio per fare semilavorati destinati all’azienda principale, ma che poi si è ingrandita e ha ampliato di molto la produzione di semilavorati in lamiera. Ora fa circa il 10% per la Ici, il resto è tutto terzismo».
Un “minidistretto” di successo
Le cifre, crisi a parte, dicono tutto – o quasi – di quello che potremmo considerare un “minidistretto” di successo. Oggi la Ici, con 150 dipendenti, fattura circa 37 milioni di euro ed è leader nella produzione di generatori di vapore ad uso industriale e di caldaie per riscaldamento a uso civile. Lucchini minimizza, dice che «non ci sono mai state svolte eclatanti, innovazioni di prodotto particolari» ma – deve infine ammettere – «abbiamo sempre cercato di perseguire un miglioramento costante della qualità del prodotto». Soprattutto a partire dal duemila, quando alcuni figli, entrati anch’essi in azienda, intuiscono che il futuro dell’energia si gioca nell’integrazione delle fonti energetiche, nel risparmio e nel rispetto dell’ambiente, e decidono di dedicare tempo e risorse ai progetti centrati sull’idrogeno. Per passare dalle caldaie centralizzate e dal teleriscaldamento – che oggi rappresentano la soluzione più economica e integrata – a microcogeneratori con celle a combustibile, in grado di utilizzare l’idrogeno come fonte prima di energia.
Ma i pochi metri che separano i capannoni di Ici e Verona Lamiere non devono trarre in inganno, facendo sembrare Verona Lamiere il fornitore unico dei semilavorati per le caldaie. «Fino all’89 – spiega Lucchini – Ici faceva all’interno i semilavorati in lamiera necessari, con tecnologie superate. Poi abbiamo creato Veronalamiere, che pian piano si è sviluppata iniziando a vendere lamiera lavorata ad aziende terze. Oggi ha 130 dipendenti e fattura 30 milioni. A parte i sistemi informativi unificati, la gestione è completamente diversa e c’è totale indipendenza operativa».
I numeri, come sempre, sono indicativi ma non spiegano tutto. Soprattutto, non spiegano quel modo di intendere l’impresa che Lucchini ha avuto in mente da sempre, e che, cosa che non sempre avviene, è riuscito a trasmettere ai figli e ai collaboratori. «C’è stato un momento – ammette – in cui ero sul punto di vendere. Sembrava che nessuno in famiglia volesse fare il mio mestiere, nell’‘88-’89 avevo quasi definito la vendita – stavo trattando con Ferroli, di San Bonifacio – quando mia figlia maggiore, che in realtà aveva studiato tutt’altro, mi chiese di non farlo, mettendosi a disposizione per lavorare con me. “Mi sentirei di imparare in fretta” – mi disse. Non mi sono mai più pentito, e ora quattro su cinque sono in azienda».
L’anomalia italiana
Si tocca con mano, parlando con Lucchini, il nocciolo inesplicabile dell’anomalia italiana, quello che le statistiche traducono ma non afferrano, mostrando una piccola impresa traino del paese ma sempre sul punto di soccombere, piccola ma colpevole di non diventare grande, minacciata dal “fuoco amico” della burocrazia e dell’inefficienza, ma inserita nel proprio territorio in un modo che viene tuttora studiato nelle business school americane; performante e flessibile, nonostante l’offensiva asiatica delle produzioni a basso costo. È il fattore umano, l’anomalia, fatto di fiducia nelle persone, nella loro inventiva e nelle loro risorse. «Come ho fatto a innovare? Mi sono servito un po’ della tecnologia tedesca, un po’ delle migliorie venute all’interno. Ho sempre avuto uno staff abbastanza piccolo di tecnici, ma composto da persone in gamba». Le relazioni imprenditoriali? «Sì, sono iscritto ad una organizzazione imprenditoriale, ma credo che serva molto di più il rapporto che ho avuto e sviluppato negli anni con i collaboratori esterni e interni. Faccio ricorso soprattutto ad artigiani locali: almeno 7-8 realtà artigianali con al massimo una decina di dipendenti che lavorano al 60-70 per cento solo per il gruppo. Con loro c’è una collaborazione molto stretta, che ci ha aiutato a crescere di fatturato senza aumentare le risorse umane interne».
I suoi dipendenti, Lucchini, li conosce quasi tutti. Crisi o non crisi, dice, il vero problema è che molti purtroppo credono poco nel lavoro. Ecco perché «la difficoltà spesso non è tanto nel rapporto personale – spiega – ma nelle convinzioni delle persone. Pensano che l’impresa sia qualcosa che sfrutta, che non ha un valore intrinseco. Ecco perché – dice con una battuta – credo di essere più sindacalista io di tanti altri sindacalisti che fanno politica. Non si può stare in azienda in modo puramente antagonista».
In una prima fase l’estero rappresentava il 7-8 per cento del fatturato, ora è superiore al 50. Non temiamo tanto la Cina, sostiene Lucchini, perché «la concorrenza più difficile da scalzare rimane quella qualitativa: nel vapore la Loos, e nel riscaldamento centralizzato la Vismann, entrambe tedesche, azienda di esperienza centenaria la prima, leader mondiale nel settore la seconda. Per noi, avendo abbandonato quasi del tutto la produzione di caldaie domestiche e murali, è più facile vendere all’estero che in Italia: è un mercato che ha molto più bisogno del nostro di forniture, mentre l’Italia è ormai solo un mercato di ricambi. Ci attendiamo molto dalle nuove costruzioni, attente ai parametri dell’efficienza, perché noi puntiamo sull’impianto centralizzato, sofisticato, con una centrale termica unica e con distribuzione a zone, dotate di contacalorie ma senza caldaia singola per appartamento perché una caldaia da 20 mila calorie in un appartamento da 100 mq è il triplo di quello che serve, ne bastano 6 mila». È in questo campo, quello dell’efficienza energetica, che la Ici intende giocare fino in fondo le sue carte. Anche in tempo di crisi.
Dentro la crisi
Lucchini non la nasconde, anzi dice che nella zona, che lui conosce molto bene, tutti la soffrono, a cominciare dai clienti. Il calo non è uguale per tutti, c’è chi è diminuito del 30, ma altri, in modo più grave, anche del 50 per cento.
In azienda non si prevede per ora la cassa integrazione, ma non si esclude di farvi ricorso più avanti. «Da parte nostra – dice – siamo riusciti a non ridurre a meno della metà le commesse degli artigiani che lavorano con noi. In un momento in cui si sente parlare del disastro, anche questo è già qualcosa. Certo, molto dipende da quanto durerà la crisi: se dura 4-5 mesi siamo in grado di sopportarla, ma se dura due anni creerà dei problemi. La stretta del credito? Finora siamo riusciti ad avere dalle banche quello che ci serve».
Certo non è facile, per un’azienda che punta su qualità del prodotto e innovazione, mantenere le voci di bilancio che in tempi di crisi son le prime a saltare, ma l’azienda non può permettersi di abbandonare lo sviluppo di nuovi progetti, e nemmeno di rinunciare a fare formazione. Perché «migliorare la capacità tecnologica è il primo interesse dell’azienda, ma è anche quello del dipendente. Sono sempre stato convinto di questo, – conclude Lucchini – che fare il bene dell’azienda si traduce sempre in un vantaggio per tutti».
Chi voleva la finanziarizzazione a tappe forzate dell’economia, anche in casa nostra, e diceva che le piccole imprese erano il retaggio di un paese in grave ritardo, è stato smentito dai fatti e ora tace. Forse il Nordest sarà in crisi, ma quando occorre saper navigare c’è ancora chi è in grado di farlo. Anche senza aiuti di Stato.