L’accordo sui paradisi fiscali è stato trovato ieri al vertice del G20 in extremis grazie all’intervento del presidente americano Barack Obama. Che a cinque minuti dalla conferenza stampa del premier britannico Gordon Brown – dove è stato presentato il documento finale firmato dai leader – è riuscito a superare lo stallo creatosi a causa di uno scontro tra la Francia e la Cina.
I cinesi, infatti, si opponevano all’inserimento dei centri finanziari di Hong Kong e Macao nella lista nera dei paradisi fiscali. La Francia, invece, voleva che tutti i Paesi fossero elencati nel “quaderno della vergogna”. Ed è stato braccio di ferro per tutto il pomeriggio.
Alla fine, dopo ore di negoziati, il presidente cinese Hu Jin-tao dava il suo consenso alla pubblicazione di una lista divisa in paesi “bianchi”, “grigi”, e “neri”. Il problema a quel punto è diventato il seguente: chi avrebbe compilato tale lista? L’Ocse – l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico – pareva la scelta più sensata: l’organizzazione ha infatti sia la struttura che il pedigree necessario a pubblicare uno studio del genere. I cinesi, però, si sono opposti. A loro modo di vedere, infatti, l’Ocse rappresenta uno specie di club dei paesi ricchi, al quale la Cina peraltro non ne fa nemmeno parte.
È stato qui – stando alle informazioni raccolte dal quotidiano britannico Guardian – che l’azione di Barack Obama si è fatta essenziale. La proposta americana prevedeva che fosse sì l’Ocse a formulare la lista, ma fosse compito poi del G20 – attraverso la riunione dei ministri delle Finanze – “vidimarla”. I cinesi, da parte loro, sono riusciti ad ottenere la “promozione” delle sue due amministrazioni speciali, Hong Kong e Macao, dalla lista nera a quella grigia.