C’è un dato imbarazzante, tra i tanti sfornati dalle fonti statistiche ufficiali nell’ultima settimana dell’anno: il 45% della ricchezza complessiva delle famiglie italiane è in mano al 10% dei nuclei familiari italiani, ha rilevato la Banca d’Italia. Un ulteriore 45% della ricchezza complessiva è detenuto da una seconda fetta di famiglie, pari al 40% del totale. All’ultima metà dei nuclei familiari, quelli più poveri, tocca appena il 10% residuo della ricchezza. Insomma, la metà più povera delle famiglie italiane possiede appena il 10% della ricchezza complessiva.
È la fotografia di una società estremamente polarizzata tra pochi ricchi, molti poveri e un ceto medio ancora vasto, che però più che ambire ad ascendere verso la parte privilegiata della società sente di dover al contrario stare molto attento a non scivolare tra i poveri.
Un’Italia modello asiatico, dove le sperequazioni non sembrano nascere tanto dalla meritocrazia quanto dalle corporazioni e dalla stratificazione delle lobby e delle oligarchie. In una società poco dinamica, dov’è straniero il “mito americano”, e dove Silvio Berlusconi ha buon gioco a proporsi come modello di successo “self-made”, ma era pur sempre egli stesso figlio di un direttore di banca, queste sperequazioni pesano sempre di più. Proprio perché il loro peso stride con il declinare delle speranze di promozione umana, con il diffondersi della disoccupazione giovanile, del precariato, delle crisi da quarta settimana, del bamboccionismo e della “generazione mille euro”. Insomma, una società che non sogna e non desidera più – diagnosi del Censis – e che trova serrato il rubinetto del welfare state, a causa del macigno opprimente del debito pubblico.
Ebbene, questa società fatalmente punta lo sguardo là dove sa che sono custoditi i capitali a prima vista improduttivi. E un grand-commis di Stato come Giuliano Amato, l’uomo che nel ’92 – con la benedizione della Banca d’Italia e sotto l’impulso di una crisi valutaria senza precedenti – varò il prelievo forzoso dai conti correnti che costituì gran parte della manovra da 90 mila miliardi di vecchie lire che salvò la situazione, se n’è uscito inopinatamente proponendo una tassa patrimoniale.
Sì, né più e né meno che una bella tassa patrimoniale, proposta con un intervento su Critica sociale, che secondo lui potrebbe concretizzarsi in prelievo medio di 10.000 euro pro-capite dai risparmi individuali. Una mossa che permetterebbe di ridurre lo stock del debito pubblico dall’attuale 120% a quota 80% del Prodotto interno lordo.
L’ipotesi ha trovato un correttivo già più elaborato nel pensiero di Susanna Camusso, neo-segretaria della Cgil, secondo la quale questo prelievo potrebbe essere concentrato sulle ricchezze più cospicue e non su tutti i patrimoni appena superiori alla soglia dell’agiatezza, con un marcato aumento della progressività: concetto sacrosanto, perché prelevare 10 mila euro a chi ne possiede in tutto 100 mila significa tagliargli l’erba sotto i piedi e inibirgli precise possibilità di benessere incrementale (far studiare un figlio all’estero, comprare due stanze in periferia alla figlia che si sposa, ecc.), mentre prelevare 10 milioni di euro a chi ne ha 100 non gli cambia di un millimetro il tenore di vita effettivo… E soprattutto quelli che hanno 10 milioni in banca saranno poche decine di migliaia di cittadini, che per quanto s’arrabbino contano zero in termini elettorali, mentre ad avere centomila euro di risparmi sono pur sempre tanti milioni di cittadini-elettori.
Perché l’impressione è che tutto questo dibattere sulla possibilità di ricorrere a una tassa patrimoniale e di modularla nell’uno o nell’altro modo prescinda da due considerazioni: la prima è che niente e nessuno potrebbe garantire agli italiani che i conti pubblici risanati a un prezzo così alto verrebbero poi lasciati in equilibrio anziché essere nuovamente, subito dopo, saccheggiati da una spesa corrente che nessuno ha saputo finora domare, nemmeno il litigioso tandem Brunetta-Tremonti; e soprattutto non ci si chiede cosa accadrebbe, a patrimoniale pagata, ai patrimoni delle famiglie più abbienti, essendo invece chiarissimo che, salvo introdurre norme valutarie ineludibilmente contrarie alle regole europee, i tartassati della patrimoniale non aspetterebbero più neanche un giorno a portarsi oltre confine i risparmi residui, cessando anche con tutta probabilità di investirli in titoli di Stato tricolori.
Quanto all’opinione pubblica internazionale, finiti gli applausi di maniera per la decisione coraggiosa del governo – ammesso e non concesso che tali applausi ci fossero – non farebbe altro che trarre le debite conseguenze dallo spettacolo appena applaudito, dirottando a sua volta verso lidi più sicuri i propri investimenti.
Servirebbe allora ben altro che “Invitalia”, per far venire da noi i capitali stranieri. Una patrimoniale sarebbe il più formidabile modo per dissuadere il mondo dall’investire in Italia. Prima di vararla, questa patrimoniale, sarebbe quindi bene che qualunque governo ci pensasse mille volte.