Dunque, alla fine la Germania ha calato le braghe accettando di dar vita a un secondo programma di salvataggio della Grecia, con ogni probabilità quantificabile in 50-60 miliardi di euro. Angela Merkel, l’ex frau di ferro, ha però addolcito ben bene la pillola per i suoi connazionali, annunciando nelle stesse ore del sì a nuovo denaro per Atene, lo stop definitivo al nucleare entro il 2022: la ridicola atomofobia del post-Fukushima ha infatti plagiato le menti di molti tedeschi, mettendo il turbo elettorale ai Verdi. I quali, ora, saranno pronti a correre in soccorso delle Merkel in caso i Liberali alzino la voce per l’ennesimo regalo alla Grecia.



State certi che la Germania non rinuncerà mai al nucleare, non a caso l’arco temporale delle dismissioni è molto lungo e quindi piegabile a ripensamenti una volta che la sindrome giapponese sarà passata: senza atomo, addio crescita record e, soprattutto, ritorno di massa al carbone. Impossibile.

Ieri, tanto per intorbidire ancora un po’ le acque, è giunta una precisazione. Un portavoce del ministero delle Finanze tedesco ha infatti indicato che, in caso di ulteriori misure da adottare per aiutare la Grecia, un nuovo aiuto sarebbe possibile solo a tre condizioni: «Misure supplementari da parte della Grecia, soprattutto in termini di politica fiscale», un piano «molto concreto, molto pratico e comprensibile di privatizzazioni» e, in terzo luogo, «è importante che il settore privato si assuma le proprie responsabilità. Sotto quale forma, non posso dirlo ancora, ma se il settore pubblico offrirà di più di quello che ha già fatto, è chiaro che i creditori privati dovranno partecipare maggiormente: ci sono grandi aspettative in questa direzione».



Cosa significa? Nulla. E sapete perché? Il problema è che la Germania non ha calato le braghe: ha salvato per l’ennesima volta le sue banche, così come sta facendo Parigi. Guardate questi due grafici: questa è la realtà dei fatti, quei numeri sono l’esposizione monstre a Grecia e Irlanda degli istituti tedeschi, francesi e inglesi.

 

Le banche tedesche sono esposte verso i cosiddetti Pigs per 524,1 miliardi di euro, quelle francesi per 385 miliardi, quelle britanniche per 349,3 miliardi, quelle olandesi per 184,6 miliardi, quelle statunitensi per 149,3 miliardi e quelle belghe per 135,1 miliardi. E l’Italia? Pressoché immune, però costretta a pagare 80 miliardi di soldi pubblici (miei e vostri) al Fondo salva-Stati per tenere in vita quelle banche scriteriate attraverso prestiti con cui pagare le cedole dei bonds ellenici che hanno in pancia.



Sapete di quanto è sceso il rendimento del decennale greco dopo la notizia dell’ok di Berlino al secondo prestito? Di 36 punti base, una miseria. In compenso, a beneficiare dello sviluppo è stato l’indice Dax della Borsa di Francoforte, che martedì ha segnato un bel +1,86% a 7293,69 punti. Non è la Grecia a essere salvata, ma Germania e Francia! E non è tutto: le banche di Germania e Francia hanno la più ampia esposizione anche al debito portoghese e spagnolo: stando a dati della Banca per i Regolamenti Internazionali, qualcosa come 50 miliardi solo per le banche tedesche e 45 per istituti francesi. Altro che Piigs, altro che Spagna come prossima vittima sacrificale: senza i soldi di tutti noi, i prossimi ad andare a gambe all’aria sarebbero Francia e Belgio, conti alla mano.

E sapete una cosa che nessuno vi dirà? Francia, Regno Unito e Germania la scorsa settimana sono stati i primi tre nella classifica dei riceventi netti di scommesse al ribasso da parte dei mercati e non solo al livello sovrano, per tutte le categorie: il derisking nozionale netto francese è pari a 630 milioni di dollari (pari a 129 contratti), quello del Regno Unito di 558 milioni e quello tedesco di 370 milioni. Ma ancora non basta, visto che il cortocircuito è ormai folle: sapete chi sono i paesi più esposti al debito greco? L’Irlanda (3,9% del suo Pil in debito greco) e il Portogallo (4,3% del suo Pil in debito greco): insomma, un esercito di storpi con una sola stampella a disposizione che si regge uno con l’altro. Alla prima caduta, giù tutti.

E che dire del fatto che tre giorni fa, come riportava la Reuters, Fitch abbia abbassato di tre gradini il rating di Cipro, vista l’eccessiva esposizione alla Grecia (un terzo degli assets del sistema bancario cipriota è investito in Grecia), al debito greco (le banche di Nicosia hanno in pancia circa 14 miliardi di euro di titoli di Stato greci e 5 miliardi in bond bancari ellenici) e all’eventuale taglio dei rendimenti obbligazionari (in caso di haircut del 50% sulle obbligazioni greche, il sistema bancario cipriota dovrebbe ricapitalizzarsi per una cifra pari all’11% del Pil). Pensate che a Nicosia, se l’aria dovesse farsi ulteriormente pesante, non bussino alla porta della Bce con il cappello in mano? La questione è tutta politica e quindi diventano molto più chiari due accadimenti delle scorse settimane, l’arresto di Dominque Strauss-Kahn e il via libera dell’Ecofin e dell’Eurogruppo alla candidatura di Mario Draghi alla guida della Bce.

Cominciamo dal primo punto. Domenico Lombardi è un ex membro del consiglio esecutivo del Fmi e ieri, interpellato da Reuters, non ha usato mezze frasi: «Il Fmi si trova in assenza di leadership politica proprio in un momento cruciale. Gli europei sono ancora molto divisi e noto come il Fmi stia diventando ogni giorno più conservatore in fatto di rispetto pedissequo delle regole e di avversione del rischio».

Gli Stati Uniti, i principali azionisti del Fmi, hanno da sempre supportato i piani di salvataggio al fine di preservare la stabilità finanziaria globale, ma ora i dubbi crescono a Washington, visto che stando al giudizio di un funzionario molto addentro alla questione citato da Reuters, «agli occhi degli Stati Uniti una ristrutturazione del debito greco è inevitabile al 100%. La Grecia ha due opzioni: aumentare le entrate o ristrutturare». Esattamente ciò che Christine Lagarde, ministro delle Finanze francese e principale candidata alla successione di Dominque Strauss-Kahn, ha definito «un’opzione fuori dal tavolo di discussione».

Forse è fuori dal tavolo, ma certamente è ancora nel menù, almeno per Washington. È chiaro che ogni forma di ristrutturazione è tabù per la Bce, spaventata dalla possibilità che questa opzione possa portare caos finanziario in tutta l’eurozona e anche per le agenzie di rating, secondo cui diverrebbe a quel punto automatico un downgrade non solo della Grecia, ma di tutti i periferici. La questione è tutta in mano alla cosiddetta trojka Ue-Fmi-Bce, i cui emissari in Grecia entro questa settimana dovranno dare una risposta chiara all’unica domanda sul piatto: il debito greco – 330 miliardi di euro, circa il 150% del Pil – è sostenibile?

Per “chiara” intendo questo: il debito greco è sostenibile se riceve X miliardi in ulteriore supporto e privatizza assets per un controvalore X entro la data X, innalzando contestualmente le entrate di X e tagliando la spesa per X miliardi. Vi pare possibile ricevere una risposta simile, chiara e netta, da burocrati simili a quelli di Bce-Ue e Fmi, soprattutto ora che Washington guida il Fondo e punta a far pagare il costo ai detentori di obbligazioni attraverso gli haircuts mantenendo i suoi soldi in cassa? No.

E da un certo punto di vista non si può biasimare Washington: Grecia e Irlanda sono già in default, sono già insolventi e i soldi che stiamo prestando loro non li rivedremo mai e poi mai indietro. A quel punto, che paghino tutti anche attraverso i tagli dei rendimenti e la ristrutturazione del debito: tanto più che un’Europa instabile apre possibilità enormi ai bonds statunitensi come bene rifugio e Dio solo sa quanto Barack Obama e Tim Geithner vogliano acquisti obbligazionari di T-Bill pagati con soldi che non siano stati stampati in cantina dalla Fed. Come si può pensare che Atene esca dal suo circolo vizioso di deficit senza uscire dall’euro e svalutando la nuova dracma? È impossibile. Pensate solo al piano di privatizzazioni richiesto come collaterale al nuovo prestito: per il membro del consiglio direttivo della Bce, Juergen Stark, Atene ha investimenti di Stato e proprietà per un valore di 300 miliardi di euro che potrebbe vendere, mentre il piano concordato da George Papandreou parla di 50 miliardi di euro in tre anni.

Cosa c’entra poi la candidatura di Mario Draghi, direte voi? Semplice, la Germania era terrorizzata da due cose: l’irrigidimento del Fmi rispetto ai piani di salvataggio (accaduto) e il fatto che l’Italia alzasse la voce in favore della ristrutturazione del debito, essendo pochissimo esposta a Irlanda e Grecia per evitare un ulteriore esborso in un momento di stagnazione economica. Primo, Mario Draghi è stato uomo di Goldman Sachs ed è molto stimato Oltreoceano, quindi in grado di trattare con i falchi di Washington. Secondo, come fa l’Italia a remare contro quando è un suo uomo a guidare la Bce? Un domino perfetto. Sulla nostra pelle e dentro le nostre tasche.

Silvio Berlusconi vuole dare una sterzata in economia, costringendo Giulio Tremonti ad allargare i cordoni della borsa? Cominciamo proprio dal capitolo contributo ai salvataggi, nonostante il nostro ministro dell’Economia ancora si trinceri dietro il mantra del “se la casa del tuo vicino brucia, contribuisci a spegnere il fuoco per evitare che bruci anche la tua”. E al diavolo Berlino, Parigi e le loro banche. Basta regali ai banchieri: soldi all’economia reale, agli investimenti e alla ricerca.

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