Il governo di George Papandreou ha superato il voto di fiducia con una maggioranza risicata di 155 sì e 143 no e le Borse hanno respirato, anche grazie alle prese di beneficio. Cosa ci sia da festeggiare non è chiaro, visto che il momento topico per capire se il governo greco esiste o è un ectoplasma mantenuto artificialmente in vita solo dall’emergenza sarà martedì prossimo, quando il Parlamento sarà chiamato a pronunciarsi sul piano fiscale di medio termine, contenente misure supplementari di austerity per 28 miliardi di euro e un’accelerazione delle privatizzazioni.



Questo voto – e non quello dell’altra sera – sarà quindi fondamentale per ottenere da parte di Ue e Fmi lo sblocco delle quinta tranche di finanziamenti, decisione che verrà ratificata dall’Eurogruppo straordinario già fissato per il 3 luglio prossimo. Ma siamo proprio certi che la strategia scelta dall’Europa nei confronti della Grecia sia destinata a funzionare? Oppure stiamo soltanto trasferendo i debiti delle banche ai contribuenti dell’Unione, nei fatti condannando comunque Atene a una ristrutturazione inevitabile a breve?



Il think tank conservatore inglese Open Europe non ha dubbi al riguardo e sposa la seconda tesi, approfondendola e spiegandola con numeri incontrovertibili nel report “Abandon Ship: Time to stop bailing out Greece?” pubblicato martedì. Per l’autore Raoul Ruparel, infatti, «considerando la bassa crescita greca e l’incremento del peso del debito, la Grecia andrà comunque in default entro pochi anni, anche se guadagnerà un po’ di tempo attraverso un secondo salvataggio. I leader europei dovrebbero quindi pianificare il modo in cui gestire nella maniera più ordinaria possibile questo default da subito». Ma quali saranno i costi per i cittadini europei se invece la politica deciderà di perseguire nel suo sciagurato piano di prestiti a pioggia?



Un dato solo può bastare: oggi il cosiddetto “settore ufficiale” (ovvero Bce, Unione europea, Fondo Efsf, insomma i nostri soldi di contribuenti europei) ha in carico il 26% del debito greco, pari a 85 miliardi di euro. Andando avanti con questa politica, nel 2014 quella percentuale salirà a 64%, pari a 250 miliardi di euro, attraverso i salvataggi che di fatto vedranno il settore ufficiale prendere il posto di quello privato a livello di prestiti verso Atene. Oggi, ogni cittadino europeo sottoscrive 535 euro di debito greco attraverso garanzie di prestito, mentre nel 2014, dopo un secondo bailout, il conto pro capite sarà di 1450 euro.

Commenta ancora Ruparel: «Un secondo salvataggio greco quasi certamente si tradurrà in perdite per i contribuenti, poiché nonostante il denaro addizionale, la Grecia non potrà sfuggire al default e i costi di quest’ultimo sono destinati a salire più il tempo passa, trasferendo il peso dai privati al pubblico. Certamente, gli effetti di un default non vanno sottostimati, ma a mio avviso occorre preparare il prima possibile un piano per una piena e ordinaria ristrutturazione. Inoltre, serve un’onesta discussione riguardo la realistica capacità della Grecia di restare nell’eurozona».

I numeri, d’altronde, parlano chiaro. I membri dell’Ue hanno ammassato in totale un’esposizione alla Grecia quantificabile in 311 miliardi di euro attraverso il settore bancario, il pacchetto di salvataggio e il programma di liquidità della Bce, mentre Francia e Germania hanno rispettivamente un’esposizione di 82 e 84 miliardi di euro e la Gran Bretagna solo di 10,35 miliardi (anche se il dato britannico appare falsato, vista l’esposizione delle banche inglesi verso quelle continentali, a loro volta maggiormente esposte verso Atene: un aggravio indiretto, insomma). Superficialmente, l’interconnessione delle economie e del settore bancario europeo, quindi, è un argomento in favore di un secondo salvataggio.

Nel miglior scenario possibile, un nuovo bail-out che accompagni la Grecia fino al 2014 (anno in cui formalmente dovrebbe essere in grado di tornare a finanziarsi sui mercati) dovrebbe coprire una necessità di finanziamento di almeno 122 miliardi di euro, da aggiungersi a 110 del primo salvataggio. Questo scenario, inoltre, potrebbe funzionare solo se Atene terrà fede in pieno ai suoi obiettivi di riduzione del deficit e agli accordi sulle privatizzazioni, un qualcosa di non scontato vista la fortissima resistenza interna verso nuove misure di austerity. Se questo non avverrà, il gap di finanziamento da colmare da qui al 2014 salirà a circa 166 miliardi di euro, situazione che potenzialmente potrebbe portare Atene a chiedere un terzo aiuto esterno.

A fronte di questi costi, nei fatti accettati dai leader Ue che premono per evitare a tutti i costi la ristrutturazione, nessuna nazione nella storia economica moderna a raggiunto una ratio debito/Pil del 150% senza andare in default: quindi, anche dopo un secondo salvataggio, le basse prospettive di crescita e il peso del debito sempre in salita perché non ristrutturato porteranno la Grecia a non essere in grado di tornare sui mercati nemmeno dopo il 2014.

Meglio, quindi, ristrutturare quel debito monstre il prima possibile, certamente un territorio mai testato prima dall’Ue, ma anche l’unico approccio realistico alla situazione, visto che i rischi che si nascondo dietro un default non sono superiori a quelli che stanno nelle pieghe di un secondo salvataggio: ristrutturare il debito fra tre anni significherebbe infatti sommare i costi del nuovo bail-out a quelli aggravati di un default ritardato. Oggi per portare il debito greco a livelli sostenibili occorre un ammortamento di metà dello stesso, mentre la stessa operazione nel 2014 farebbe salire la percentuale di write-off a due terzi, ovvero un aggravio netto dei costi per i creditori. Insomma, meglio affrontare subito la realtà: ovvero, accettare il fatto che siamo all’interno di una crisi di debito e che questo impone, sempre e comunque, delle perdite.

I costi sostanziali che impone un default sono tre: gli effetti di primo round, gli effetti di secondo round e l’assicurazione sul debito greco. Vediamoli nello specifico. Gli effetti di primo round sono le perdite dirette che banche e governi subiranno sulle loro detenzioni di debito greco. Questa categoria include anche l’esposizione di Bce/Eurosystem attraverso il suo Securities markets programme e la fornitura di liquidità alle banche greche: il primo round durerà fino a quando ogni perdita affrontata passerà alle banche centrali nazionali dell’eurozona.

Gli effetti del secondo round sono quelli indiretti o knock-on generati direttamente dalla ristrutturazione del debito greco, come, ad esempio, l’aumento del costo per prendere a prestito da parte di altre nazioni periferiche. Il più che probabile collasso o la nazionalizzazione del settore bancario greco potrebbero poi creare degli shock nel sistema bancario europeo, portando alcune banche alla necessità di ricapitalizzazione e la Bce a un programma di forniture illimitata di contante agli istituti. Terzo step di impatto sarà quello dato dall’assicurazione sul debito greco, di fatto un qualcosa che potrebbe mitigare le perdite per le banche attraverso l’attivazione della clausola di default dei credit default swaps che detengono: essendo i principali emettitori di questi contratti banche statunitensi, quest’ultimo round sarebbe il meno duro per l’eurozona.

Agendo subito, quindi, il costo (il primo round di effetti per l’economia dell’eurozona) per un write down del 50% del debito greco sarà tra i 123 e i 144 miliardi di euro, circa 89 dei quali a carico del settore ufficiale (ovvero i contribuenti europei attraverso Ue, Bce e Efsf), dati dal combinato di 23,55 miliardi di euro di costi diretti per i contribuenti attraverso prestiti bilaterali in base al primo salvataggio greco più una cifra tra 44,5 e 65,75 attraverso garanzie della Bce. Altri 28 miliardi verranno assorbiti dalle banche greche, mentre altri 27 miliardi andrebbero in capo agli investitori privati, mentre agendo nel 2014 la percentuale di ammortamento salirà ai due terzi del debito, 69%, pari a 175 miliardi di euro, con un aggravio netto dei costi per i contribuenti quantomeno di 31 miliardi di euro.

Di più, un secondo salvataggio che accompagni la Grecia fino al 2014 senza ristrutturazione del debito costerebbe invece allo stesso “settore ufficiale” – ovvero, a noi – circa 85 miliardi di euro: insomma, più o meno la stessa spesa, ma con risultati nettamente diversi. Non vale quindi la pena di guardare in faccia la realtà e programmare un default controllato, in modo da aiutare davvero la Grecia e far pagare parte del conto anche alle banche esposte senza massacrare i contribuenti europei e affondare comunque Atene con questo accanimento terapeutico autolesionista?

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