Dopo l’asta di bond a breve termine tenutasi lunedì, che ha visto il Tesoro francese, fresco di perdita della tripla A, piazzare sul mercato tutto l’ammontare, pari a 8,59 miliardi di euro, con tassi di interesse in lieve aumento rispetto all’asta precedente (0,156% contro lo 0,023%), martedì anche Spagna, Belgio, Ungheria, Grecia e fondo Efsf hanno completato con successo le loro emissioni a breve termine. Occhi puntati, però, oggi sull’emissione di titoli di Stato francesi Btan per 6,5-8 miliardi di euro con scadenza 2014, 2015 e 2016, primo vero banco di prova visto che le maturities si allungano e superano anche l’arco temporale di garanzia dei prestiti della Bce attraverso il programma Ltro, quello che ha garantito aste piene e spread in calo a inizio settimana. Ma oggi non ci interessiamo del Napoleone degradato, bensì di un qualcosa di molto, molto più serio.



Un bond greco a un anno, infatti, prezza un rendimento del 405%: servono altri dati per capire che la Grecia è già in default? Sicuramente non ne hanno bisogno alla Msci, dove si sono già messi a calcolare il valore di scambio di un’eventuale nuova dracma. Quando la Grecia entrò nell’eurozona nel gennaio 2001, per un euro ci volevano 340,75 dracme. Oggi, in caso di reintroduzione della divisa ellenica, il tasso di cambio sarebbe 1530 dracme per un euro! Insomma, una bella svalutazione. E non ne ha nemmeno Moritz Kraemer, responsabile per i rating sovrani di Standard&Poor’s, che lunedì sera si è candidamente lasciato andare a questa previsione: «Credo che la Grecia farà default molto presto». Il giorno dopo, poi, anche Fitch ha certificato che la Grecia farà default in tempi brevi (oltre a pressoché confermare il downgrade del rating italiano entro questo mese), quasi certamente in contemporanea con l’impossibilità di onorare la scadenza obbligazionaria da 14,4 miliardi del 20 marzo prossimo.



Non un bel viatico per la ripresa dei colloqui tra creditori privati (Iif) e governo ellenico, avvenuta ieri, dopo il clamoroso abbandono del tavolo negoziale da parte dei primi venerdì scorso. Ma perché, dopo un addio così repentino e seccato, tornare a trattare dopo nemmeno una settimana? Era un bluff? No. Con una decisione finora mai né mostrata, né tantomeno utilizzata, si sono mosse presso i creditori privati, Ue, Bce e Fmi: il default va evitato, questo il loro diktat. Quindi, si torni a trattare e in fretta. Questo nonostante la Grecia non sembri disposta ad abbassare la percentuale di haircuts sul debito detenuto dalla banche (le quali, insieme agli hedge fund, puntano invece al 32%) e, addirittura, il premier, Lucas Papademos, abbia minacciato di introdurre una legge che imponga quei tagli. Le agenzie di rating e le loro previsioni hanno fatto paura alle istituzioni europee e al Fmi che, finalmente, hanno battuto un colpo?



Al netto del fatto che il ritorno al tavolo non significa accordo a tutti i costi, meglio rinfrescarci la memoria e capire cosa è successo negli ultimi mesi. Nell’ambito dell’accordo concluso a Bruxelles lo scorso 27 ottobre, i creditori privati avevano accettato di rinunciare al 50% dei loro 206 miliardi di euro di bonds dello Stato greco: il saldo di 103 miliardi sarebbe stato sostituito da nuove obbligazioni greche. E qui, secondo la vulgata classica, starebbe il problema.

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In funzione del tasso d’interesse di queste nuove obbligazioni, i creditori privati potrebbero infatti perdere sino all’80% del loro credito. La Grecia, inoltre, si stava mostrando sempre più esigente, in quanto la sua economia continua a peggiorare: il deficit di bilancio è aumentato dello 0,8% nel 2011, a 21,64 miliardi di euro, secondo i dati pubblicati ieri dal ministero delle Finanze. Inoltre, con un taglio solo del 50% e al netto delle necessarie ricapitalizzazione bancarie, l’abbattimento dello stock di debito si limiterebbe a 30-35 miliardi di euro. Insomma, la Grecia chiedeva di più e i banchieri non intendevano concederglielo. Semplice. Forse troppo semplice.

Quell’accordo, infatti, ha creato un gran brutto effetto collaterale: ha quasi ucciso il mercato dei credit default swaps, visto che quanto concordato tra Grecia e banche, essendo su base volontaria, non configura un evento di credito e quindi non fa scattare le clausole di default dei contratti. Quindi, chi è esposto verso la Grecia, al netto delle trattative, non compra più cds – di fatto inutili, visto che l’accordo sancisce un precedente pesante e destinato a fare giurisprudenza – ma scarica le sue detenzioni di debito a rischio scontando già l’haircut ancora in discussione – o anche uno sconto maggiore – pur di sgravare i bilanci. E le banche statunitensi non possono permettersi che il florido mercato dei cds si estingua o diventi residuale.

Qualche numero, offertoci dalla Banca per i regolamenti internazionali (Bis): nella prima metà del 2011, le banche Usa hanno aumentato le loro vendite di cds, soprattutto sovrani, di 81 miliardi di dollari, arrivando a un totale di 518 miliardi. Due terzi di questi 81 miliardi sono legati a Grecia, Irlanda, Portogallo, Italia e Spagna e, stando a dati dello stesso governo statunitense, cinque banche – JP Morgan, Morgan Stanley, Bank of America, Citi e Goldman Sachs – pesano per il 90% dell’esposizione totale a cds. Inoltre, le banche Usa utilizzano i cds per fare hedging sull’esposizione ai debiti sovrani anche come controparti.

I dati diffusi lo scorso giugno dalla Bis mostrano che le banche statunitensi hanno prestato direttamente circa 181 miliardi di dollari alle cinque nazioni Piigs e hanno copertura cds di tre volte tanto: contabilizzando le detenzioni Usa di cds, l’esposizione statunitense (total risk) sale a 767 miliardi di euro. Insomma, a fronte di un business decisamente ghiotto messo in pericolo dall’accordo, c’è un ammontare netto di nozionale di cds greci pari a soli 5,3 miliardi di dollari, stando a dati della Depositary Trust&Clearing Corporation, nulla di paragonabile al totale del debito greco, pari a 394 miliardi di dollari.

Quel dato, inoltre, rappresenta un calo del 28% in un anno, la flessione più marcata tra i primi 30 cds – sovrani e corporate – tracciati da Dtcc. Il numero nozionale di cds greci sul mercato è il 21mo al mondo, dietro all’Italia (prima in classifica), Francia, Spagna, Goldman Sachs, JP Morgan, Berkshire e Wells Fargo. Di più, l’esposizione netta dei partecipanti del mercato che hanno venduto cds sovrani greci è, dati al 21 ottobre scorso, approssimativamente di soli 3,7 miliardi, dai 6,3 miliardi di dollari di inizio anno.

Insomma, nulla di irreparabile per i grandi player del mercato rispetto all’estinzione di un business come quello dei cds sovrani e corporate. L’unico soggetto che patirà – e molto – per un default greco, è la Bce, la quale detiene decine di miliardi di debito ellenico sottoforma di collaterale per ottenere finanziamenti e che vedrà quella carta riprezzata pesantemente al ribasso, se non addirittura trasformata in immondizia, rischiando di innescare un’altra corsa sulla liquidità. Eh già, la Bce ha in pancia 40 miliardi di bonds greci acquistati dal giugno 2010 in avanti all’interno del programma Esm e questo dato la trasforma nel più grande detentore di debito ellenico.

 

Nonostante questo, la Bce non è parte in causa nella trattative tra creditori privati e governo greco, per scelta della stessa Eurotower. La quale, però, in caso di ristrutturazione coercitiva, magari con l’introduzione retroattiva di clausole di class action, si troverà di fronte a un bel dilemma. Se continuerà a resistere nella sua posizione, subordinerà tutti gli altri detentori di debito greco, i quali vedranno le loro posizioni semplicemente cancellate. Molti di questi soggetti sono banche europee, le quali da un’operazione simile vedranno compromesso il loro capitale e, paradossalmente, potrebbero per questo avere bisogno della Bce. E, cosa ancora peggiore, tramuterebbe in senior anche le sue detenzioni di altri debiti sovrani, ovvero spagnolo e italiano. Insomma, il programma Esm rischia di trasformarsi in un’arma a doppio taglio.

Fin qui la Bce, ecco forse spiegato l’appello quasi disperato di Mario Draghi di fonte all’Ue, quando ha definito la situazione attuale “gravissima”, a fronte di un peggioramento, guarda caso, nel quarto trimestre del 2011. Le banche appartenenti al consorzio di creditori no, loro, paradossalmente, da un default hanno ormai solo da guadagnarci, non creando un precedente scomodo che azzoppi il mercato cds e certamente in grado di reggere un impatto così limitato come quello del nozionale di cds greci, visti i quotidiani outflows di contante per le variazioni dei margini, un qualcosa che ci dice come le banche abbiano di fatto riserve extra per un evento di default e potrebbero paradossalmente diventare beneficiarie di inflows di contante.

Gli hedge funds, ormai definiti sui mercati “activist sovereign hedge funds”, dal canto loro, si fregano le mani e comprano cds greci a valanga dalle banche più piccole, quelle che non fanno parte del consorzio di creditori privati che sta trattando, certi che la decisione degli stessi creditori di sospendere i colloqui sia il primo atto verso un default coercitivo entro due mesi al massimo. Gli ultimi dati contenuti nel report dell’Ifre parlano questa lingua: nel quarto trimestre del 2011, banche europee di dimensioni minori hanno scaricato posizioni, prontamente acquistate dai fondi speculativi, anche quei vulture funds, o fondi locusta, che acquistano ciò che nessuno vuole comprare, pronti poi a scatenare cause legali contro il Paese caduto in disgrazia di turno. A spaventare tutti, un aggettivo e una parola: “volontario” e “clausole di class action”, che di fatto si tramutano nella parola che occuperà sogni e incubi del mercato nel futuro prossimo, “subordinazione”. Ovvero, il porzionamento di una classe già esistente di bonds in due distinti sottoinsiemi che vengono trattati con prezzi diversi e posseggono differenti protezioni dell’investitore. Detto in parole povere, un ulteriore colpo al mercato obbligazionario.

Insomma, parecchie banche europee di second-tier nell’ultimo trimestre dell’anno scorso hanno venduto portafogli di debito greco nel range dai 50 a 100 milioni di dollari, con almeno un caso di trade superiore a questa cifra. Ad acquistare, hedge funds intenzionati a creare posizioni in grado di bloccare l’accordo e vulture funds che si stanno focalizzando sul debito greco denominato estero che sottosta alla legislazione britannica, una scorciatoia per quando si andrà a battere cassa per ottenere il pagamento: niente tribunali greci, basterà l’Alta corte di Londra, solitamente molto generosa verso le richieste di risarcimento dei “fondi locusta”, ne sanno qualcosa Zambia e Liberia, trascinate in aula per rispettivi 40 e 12 milioni di sterline nel 2007 e 2009.

Insomma, tutti in attesa del default, per una ragione o per un’altra. E in caso di default coercitivo, chi decide se scattano le clausole di attivazione dei cds? L’Isda (International swap and derivatives association), la Confindustria di chi vende derivati (quindi anche cds), il cui comitato esecutivo chiamato a pronunciarsi in materia è composto da 15 persone: dieci banchieri e 5 investment managers! Insomma, Dracula che presiede l’Avis! Lo scorso 27 ottobre, l’Isda dichiarò che l’accordo in discussione non poteva essere considerato un default. Ora, alla luce del quasi fallimento dei colloqui tra governo greco e banche, potrebbe invece avere tutto l’interesse a cambiare idea, spingendo la Grecia verso un default quasi indolore per le banche – i cui dirigenti siedono nel comitato esecutivo della stessa Isda – e in grado di preservare loro il lucroso mercato dei cds. Oppure no, ma in questo caso, che prezzo dovranno pagare Ue, Bce e Fmi ai signori dei derivati per evitare un default disordinato? Allacciate le cinture.

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