Oggi abbandoniamo per un attimo l’iperuranio della finanza, dei derivati, dello shadow banking system e parliamo di economia reale e macro. Già, perché tra bonds, spread, cds, deficit e Pil, la prima grande vittima di questa crisi infinita appare proprio il lavoro. Le cifre parlano chiaro, a gennaio la disoccupazione è salita in tutt’Europa: il dato Eurostat segnala un tasso del 10,7% nell’Eurozona (era 10,6% in dicembre) e del 10,1% nell’Ue a 27 paesi (10% in dicembre). I disoccupati sono 24,325 milioni nell’Unione europea, di cui 16,925 nell’Eurozona. L’aumento rispetto a dicembre è stato di 191mila unità, di cui 185mila nei 17 paesi della moneta unica. I tassi di disoccupazione più elevati si confermano in Spagna (23,3%), Grecia (19,9%, ma il dato è di novembre), Irlanda e Portogallo (entrambe al 14,8%). I giovani disoccupati sono 5,5 milioni nell’Unione a 27 e 3,314 milioni nell’Eurozona, con tassi rispettivamente pari al 22,4% e al 21,6%; il fenomeno è particolarmente rilevante in Spagna, dove la metà (49,9%) degli under 25 è senza lavoro, Grecia (48,1% in novembre) e Slovacchia (36%), mentre il dato italiano è pari al 31,1%, contro il 9,2% generale.
Il problema è che, con tre paesi sotto il rigido controllo della troika e delle sue ricette draconiane, si applica il concetto più sbagliato in tempo di crisi: ovvero, trasformare l’abbattimento del debito da una maratona a una gara dei 100 metri, affossando la crescita. Detto fatto, ancora qualche dato dal Portogallo, ormai nostro sorvegliato speciale. A parte l’aumento del 20% delle morti nel mese di febbraio (non suicidi, quindi quasi certamente legati ai minori standard del servizio sanitario, massacrato dalla cura Ue-Bce-Fmi) sottolineato dal Guardian in un reportage, il deficit pubblico “core” del Portogallo è triplicato a gennaio-febbraio di quest’anno, con un calo delle entrate e un aumento della spese.
È la dimostrazione che Lisbona fatica a restare dentro i target previsti in cambio dei 78 miliardi di euro di aiuti internazionali: il deficit è salito a 799 milioni di euro dai 274 milioni dello stesso periodo del 2011. Insomma, la traiettoria è quella greca: la spesa pubblica è salita del 3,5% a 7,06 miliardi di euro, inclusi i trasferimenti alle compagnie statali, mentre le entrate sono scese del 4,3% a 6,26 miliardi di euro.
Che fare, quindi? Non curante della realtà, il Portogallo pare aver preso alla lettera le imposizioni di Ue-Bce-Fmi e per garantire nuove iniezioni di capitali e far fronte all’elevato debito pubblico (obiettivo non raggiungibile, come ci dicono questi numeri, ma l’importante è l’apparenza e garantire shopping a basso costo ai predoni stranieri), il governo ha annunciato la privatizzazione dei maggiori cantieri navali del Paese, quelli di Viana do Castelo, con gruppi russi e cinesi interessati all’acquisto già prima dell’estate. Il primo ministro, Passos Coelho, ha assicurato che sarà salvaguardato «il maggior numero possibile» dei 670 posti di lavoro dei cantieri navali, ma la storia insegna che quando si privatizza con l’acqua alla gola, non solo si rischia di accettare proposte al ribasso, ma anche di dover ingoiare ristrutturazioni capestro.
Questo è solo l’ultimo tassello del piano di smantellamento del patrimonio pubblico portoghese, visto che l’8 febbraio scorso il governo annunciò la vendita di una quota del 40% di Ren, la rete elettrica nazionale, a una società cinese e a un’altra dell’Oman: la China State Grid pagherà 387 milioni di euro per il 25% di Ren, mentre la Omani Oil verserà 205 milioni di euro per un altro 15%. Lo Stato detiene ancora l’11% di Ren e prevede di vendere tali azioni a investitori istituzionali e piccoli in un secondo momento, a seconda delle condizioni di mercato. Già lo scorso dicembre, poi, il Portogallo ha venduto una quota del 21,35% della utility Energias de Portugal al gruppo China Three Gorges nell’ambito del programma di dismissioni imposto dalla troika per gli aiuti e il governo prevede inoltre di vendere, quest’anno, tutta o in parte la società energetica Galp Energia, la compagnia aerea di bandiera Tap Air Portugal, la società di gestione aeroportuale Ana e quella di merci su rotaia Carga CP Company.
Basterà? Al netto dell’impoverimento dell’economia lusitana e del futuro di colonizzazione economica del Paese, non solo queste operazioni sono meramente di cassa e non creano nemmeno un posto di lavoro, ma rischiano di tramutarsi soltanto in un regalo a imprenditori e fondi esteri, alla luce delle reali cifre che giungono da Lisbona. Se infatti la Commissione europea stima la ratio debito/Pil del Paese al 111%, i dati reali parlano un’altra lingua. A fronte di un Pil totale di 208 miliardi di euro, il debito di breve periodo è di 99 miliardi di euro, quello di lungo periodo di 96 miliardi, cui però occorre sommare i 111 miliardi di prestiti della troika – da ripagare con gli interessi -, le garanzie governative sui prestiti bancari pari a 24 miliardi di euro e la voce “altro debito” con garanzia statale pari a 16 miliardi di euro. A conti fatti, quindi, la ratio debito/Pil reale è già oggi al 140%, destinata a crescere in caso di ristrutturazione del debito, poiché sul mercato esistono posizioni cds nette sul debito lusitano pari a 5,2 miliardi di dollari e un ammontare netto di 67,30 miliardi di dollari, il doppio della Grecia.
Insomma, privatizzare – quasi certamente – non servirà quindi a nulla, se non ad aggravare la situazione occupazionale e a ripagare gli interessi dovuti a troika e investitori privati: le banche portoghesi sono infatti zombie attaccate al polmone d’acciaio della Bce, la quale presta sì denaro ma a fronte di collaterale. Non avendo più collaterale, le banche lusitane autoemettono obbligazioni che si fanno garantire dal governo per ottenere denaro e restare in vita: così facendo, la Bce si intasa di carta igienica e, soprattutto, Lisbona crea ulteriore debito pubblico, l’esatto contrario di quanto dovrebbe fare.
La domanda è: la Bce non è al corrente di questa dinamica diabolica? Se no, c’è da preoccuparsi seriamente. Se sì, è pure peggio visto che fa parte della troika che impone tagli e, nel contempo, partecipa attivamente alla creazione di ulteriore debito pubblico, permettendo a Lisbona di garantire la carta da parati emessa dalle sue banche insolventi. Questo è un circolo vizioso che ha giù ucciso la Grecia, possibile che non lo si capisca?
Chi invece sembra avere capito bene questa dinamica devastante è proprio Atene, la quale dopo aver svenduto l’ente portuale del Pireo alla Cina e aver guadagnato tempo attraverso lo swap sul debito, ha deciso di passare alle contromosse, non contro Francia e Germania, accusate dall’ex premier Papandreou di aver amplificato la crisi perdendo tempo (Deutsche Bank sentitamente ringrazia), ma contro altri due membri del Club Med, Spagna e Italia. Con il turismo come unico traino dell’economia, ad Atene hanno quindi deciso di affiancare al fascino di mare e isole, quello dei prodotti alimentari tipici greci per recuperare fette di mercato e di export nelle aree forti del globo.
Incapace di vendere al meglio il suo potenziale agricolo-alimentare, Atene è passata alle vie di fatto, incaricando una delle aziende di consulting leader al mondo, McKinsey e Co., di preparare uno studio e un business plan che garantisca una dinamo alla disastrata economia ellenica attraverso le sue poche eccellenze. Intitolato “Greece 10 Years Ahead: Defining Greece’s New Growth Model and Strategy”, lo studio parte da un presupposto molto chiaro: «La Grecia ha un potenziale significativo per aumentare l’output, le sue esportazioni e contenere l’import, specialmente riguardo le sue quattro categorie a maggiore potenziale: olio, frutta e verdura, latticini e prodotti da forno», scrivono gli autori. Insomma, alla faccia di swap e derivati, si torna ai prodotti della terra e all’economia reale! Proseguono alla McKinsey: «Ad esempio, la Grecia è il terzo produttore di olio di oliva al mondo, ma esporta il 60% della sua produzione in Italia all’ingrosso al prezzo di circa 2,1 euro al chilo, garantendo così all’Italia un premio del 50% sul prodotto finale e confezionato che finisce sul mercato a 3,1 euro al chilo circa. E ancora, la Grecia detiene soltanto il 28% del mercato globale del formaggio “feta” e il 30% del fruttuosissimo mercato statunitense dello yogurt in stile greco: sono tutte opportunità commerciali in grado di dare un grossa spinta all’economia».
In effetti, prendendo in esame i 15 paesi più importanti a livello di importazione dell’olio, la Grecia ha una fetta di export pari solo al 4%, contro il 96% di Spagna e Italia. Con il nostro Paese che, come già detto, importa il 60% dell’export totale greco di olio, a un prezzo molto concorrenziale prima di rimetterlo sul mercato come prodotto finito, spesso spacciato come “Made in Italy”. Ecco quindi, le mosse che McKinsey ritiene fondamentali per la Grecia al fine di guadagnare posizioni. Primo, priorizzare i mercati, mettendo in cima agli obiettivi il Nord America, il Regno Unito, Germania, Austria e i Balcani, estendendo il portafoglio di export al mercato dei latticini, enfatizzandone l’origine e la tipicità greca. Secondo, convertire l’export di olio all’ingrosso in export di prodotto finito, puntando sull’origine e sul “made in Greece” per fare concorrenza diretta a Italia e Spagna, sostituendo inoltre l’export di oli differenti – palma e semi di girasole – con esportazioni di alta qualità, quindi olio d’oliva. Terzo, creare un meccanismo di certificazione visibile e riconoscibile a livello internazionale riguardo l’origine greca dei prodotti.
Quarto, aggredire nuove nicchie con prodotti settoriali come asparagi e safran. Quinto, creare una Greek Food Company per supportare il “made in Greece” e l’export in tutto il mondo. Sesto, differenziare le strategie di marketing e commerciali, dividendo i mercati export in due (prioritari e non prioritari) e aggredendo la concorrenza anche attraverso politiche di accordi con catene della grande distribuzione globale, al fine di avere sempre garantito e visibile il marchio “made in Greece” e i prodotti greci nei supermercati di New York come Londra, di Berlino come di Lubiana e Zagabria.
Olio, feta e yogurt invece di swap sui tassi e bond sotto legislazione inglese: vuoi vedere che la crisi è servita a qualcosa?E che, magari, qualche produttore italiano farà meno il furbo nel piazzare il “suo” olio…