Olè, ormai i Paesi dell’eurozona sono diventati materia per scommettitori, esattamente come le squadre di calcio. Per i bookmakers, infatti, sarà la Grecia la prima nazione a uscire dall’euro, seguita da Spagna e Italia. L’addio di Atene è infatti offerto a 1,25 da Wiliam Hill, seguita dallo Stato iberico (8,00) e dal Bel Paese (9,00). In quota anche, a 1,83, la possibilità di una rottura totale dell’Eurozona entro il 31 dicembre 2015.
Che giornata, quella di ieri. Borse a piombo e spread alle stelle, con lo stallo nelle consultazioni in Grecia che rendeva sempre più probabile l’opzione di nuove elezioni in giugno, ipotesi che già oggi vedrebbe primo partito con oltre il 25% la Confederazione delle sinistre. Ovvero, chi intende rinegoziare del tutto i termini dei piani di salvataggio della troika. Ma anche nelle giornate così nere, c’è sempre un bicchiere mezzo pieno da guardare, ancorché le prospettive di fondo siano tutt’altro che rosee: l’Italia ha evitato, almeno per il momento, il diretto contagio spagnolo.
In quello che è stato il primo giorno di una settimana zeppa di emissioni obbligazionarie, infatti, la Spagna ha collocato sì 2,9 miliardi – a fronte dei 3 previsti – di euro di titoli di Stato a breve termine ma con tassi di interesse in netto aumento. Il Tesoro spagnolo ha pagato un rendimento del 3% per i 2,2 miliardi di euro in bond a un anno, rispetto al 2,6% dell’ultima analoga asta del 17 aprile scorso. Inoltre, Madrid ha concesso un interesse del 3,3% per la vendita di 711 milioni di euro in buoni a 18 mesi, a fronte di un 3,1% pagato nell’ultimo collocamento analogo. Contemporaneamente, il Tesoro italiano ha collocato 3,5 miliardi di euro in Btp a tre anni con scadenza al marzo 2015, mostrando una buona domanda e tassi stabili: lo yield chiesto dai mercati si è attestato al 3,91%, in rialzo di appena lo 0,02% rispetto all’ultima analoga asta di aprile e la domanda è stata pari a 5,334 miliardi di euro.
Vi parrà poco, ma non lo è, affatto: significa che il radar dei mercati resta tutto su Madrid e Roma potrebbe avere ancora spazio – molto ridotto – di manovra. E il perché è presto detto. A differenza delle banche italiane, quelle spagnole sono letteralmente a pezzi. Non solo il governo dovrà usare tra i 7 e i 10 miliardi di soldi pubblici per salvare Bankia, la banca nata dalla fusione delle cajas, le casse di risparmio, ma la Banca di Spagna ieri ha reso noto che i prestiti della Bce agli istituti iberici sono saliti in un mese di altri 36 miliardi, raggiungendo quota 263,5 miliardi di euro, più del doppio dai 119 miliardi del 31 dicembre scorso. E ad aggiungere tensione ci ha pensato puntualissima prima l’agenzia di rating francese Fitch, secondo cui un’uscita incontrollata della Grecia dall’euro rischia di innescare una serie di downgrade di aziende europee, principalmente in Spagna, Portogallo e Italia: i tagli dei rating potrebbero essere anche di tre gradini e «la misura dei downgrade dipende dall’efficacia della risposta politica a un’uscita della Grecia dall’euro».
Campa cavallo allora, prepariamoci a botte di tre notch per tutti, vista l’abilità mostrata finora dalla politica! E poi anche Moody’s, secondo cui lo sforzo di Madrid per riportare la fiducia nel sistema bancario spagnolo, facendo aumentare gli accantonamenti delle banche a copertura delle perdite potenziali sul settore immobiliare, rischia di indebitare ancora di più la Spagna e minacciare la sua solidità creditizia. Insomma, un putiferio. Ma è davvero realistico un addio della Grecia? E come potrebbe avvenire? E, soprattutto, con quali costi?
Vediamo di dare qualche risposta, ovviamente su un piano meramente teorico. Primo, se Atene deciderà per l’addio non sarà la politica a premere il grilletto, ma le forze di mercato. Ovvero, se si arrivasse a un muro contro muro tra governo greco e troika che portasse alla sospensione dei finanziamenti di Ue e Fmi, il panico accelererebbe le fughe di depositi e capitali dalla Grecia, opzione che imporrebbe ad Atene l’introduzione di controlli sui capitali. Ma senza più fondi e con la situazione economica in ulteriore, rapido peggioramento, la Grecia si troverebbe prima delle eventuali nuove elezioni di giugno, senza il denaro necessario a finanziare la spesa ordinaria dello Stato, visto che già si parla di bonds e promissory notes come metodo per pagare stipendi e pensioni.
Oggi, inoltre, la Grecia dovrà pagare la maturazione di bonds sotto legislazione estera per 430 milioni di euro, cifra che sembra bassa ma che rappresenta invece ben il 30% di quanto è presente a oggi nella casse dello Stato, visto che Imerisia ieri faceva notare come il livello di fondi sia sceso la scorsa settimana sotto quota 1,5 miliardi di euro. Senza altre entrate da qui a fine mese è game over. Inoltre, le banche greche non hanno più collaterale elegibile presso la Bce e possono soltanto accedere al programma d’emergenza Ela attraverso la Banca di Grecia, ma anche in questo caso il collaterale, quasi sempre prestiti, non è illimitato.
A oggi le banche elleniche hanno già preso in prestito tramite l’Ela 60 miliardi di euro, peccato che la natura emergenziale dell’Ela imponga un prezzo alto, ovvero un haircut del 50% che vede quindi gli istituti greci aver piazzato 120 miliardi di collaterale per ottenere quei 60. I prestiti totali in essere sono 250 miliardi, quindi le banche greche hanno al massimo altri 130 miliardi di prestito collaterale che, però, garantirebbe denaro dall’Ela per soli 65 miliardi di euro, circa il 40% dei depositi degli istituti ellenici, a quota 170 miliardi il 31 marzo scorso.
A parte poi il fatto che non tutti i prestiti sono accettati come collaterale dall’Ela, l’unica arma nelle mani delle banche è emettere sempre più obbligazioni garantite dallo Stato: peccato che con una maggioranza di 2/3 la Bce possa bloccare tutto il giochino, a causa dei costi fuori controllo dell’Eela per la Banca di Grecia. A quel punto, la Banca centrale greca sarebbe fuori dal programma Target 2 e dovrebbe, di fatto, stampare moneta: ovvero, addio forzato all’euro e ritorno alla dracma.
Tanto più che, a oggi, la Grecia ancora attende e dipende da 6,3 miliardi di euro per necessità governative e 23 miliardi per la completare la ricapitalizzazione del sistema bancario.
Una rottura fra Atene e la troika, quindi, farebbe fare alle forze di mercato ciò che magari non era nelle intenzioni dei partiti greci. Ma quanto costerebbe questa ipotesi al resto d’Europa? Le perdite dirette immediate si sostanzierebbe in 240 miliardi di euro in debito greco detenuto da soggetti cosiddetti ufficiali (Ue e Fmi), 130 miliardi di esposizione dell’eurosistema alla Grecia attraverso il Target 2 e una perdita potenziale di circa 25 miliardi di euro per le banche europee: circa 400 miliardi, immediati. Una bella mazzata ma forse gestibile, peccato che via siano poi le conseguenze indirette, in questo caso il contagio a Spagna e Italia.
Già, perché nonostante nell’ultimo anno e mezzo i politici europei abbiano cercato in tutti i modi di convincere il mercato che il caso greco è unico in Europa, questi sforzi non hanno portato ad alcun risultato. Lo dicono le cifre: le continue vendite di obbligazioni sovrane italiane (200 miliardi) e spagnole (80 miliardi) da parte di investitori stranieri negli ultimi nove mesi parlano la lingua di un mercato che vede Atene come un precedente e non un caso speciale nell’Ue. E il problema non riguarderebbe solo i circa 800 miliardi di obbligazioni italiane e spagnole ancora nelle mani di investitori esteri, ma anche i circa 500 miliardi di obbligazioni bancarie e corporate dei due paesi e i circa 300 miliardi di titoli di aziende italiane e spagnole quotate in mano a investitori stranieri.
Infine, se il panico per la Grecia innescherà una fuga di capitali tale da costringere Atene a introdurre controlli, questo non potrebbe destabilizzare anche la situazione per gli 1,4 triliardi di depositi interni delle banche italiane e dei 1,6 triliardi di quelle spagnole? Quale unica opzione alternativa? Un piano Marshall in piena regola per la Grecia, ovvero l’accelerazione di un’unione fiscale nell’eurozona. Praticabile? No, visto che a quel punto avrebbe più senso un addio della Germania all’Ue piuttosto che dei paesi periferici, stante anche il bilancio della Bundesbank all’interno di Target 2, salito ad aprile al nuovo massimo record di 644 miliardi di euro.
Che fare, quindi? A mio avviso l’unica cosa da fare è obbligare la Bce ha subire l’haircut sulle sue detenzioni di debito greco, abbassando così significativamente e senza altre misure draconiane e ammazza-crescita lo stock di debito ellenico ed eliminando, oltretutto, lo stigma di subordinazione per tutti gli altri soggetti e debiti. Lo faranno? No, l’Eurogruppo di ieri lo ha confermato. Avanti così, verso il Titanic.