Eurobond sì, eurobond no. Grecia nell’eurozona, Grecia fuori dall’eurozona. Sono stati questi i mantra che hanno caratterizzato i movimenti di mercato negli ultimi due giorni, improntati all’ottimismo più cieco martedì e al pessimismo cosmico ieri (all’ora di pranzo Milano perdeva già il 3%). D’altronde, quando il soggetto politico chiamato a dare una risposta a questi interrogativi parla, quantomeno, con due voci, tra loro completamente dissonanti, c’è poco da fare: si naviga a vista. A mettere il carico da novanta, poi, martedì sera – a 24 ore dal vertice informale dei capi di governo dell’Ue – ci ha pensato l’ex premier greco, Lucas Papademos, secondo il quale «non si può escludere un piano che preveda l’uscita della Grecia dall’euro. Anche se si tratta di uno scenario che è difficile che si materializzi – ha dichiarato Papademos al Wall Street Journal – e che non è desiderabile né per la Grecia, né per gli altri paesi, non si può escludere la preparazione di un piano che preveda le possibili conseguenze di un’uscita della Grecia». Secondo Papademos, inoltre, la stima dei costi di un’uscita della Grecia dall’euro oscilla tra i 500 milioni e un miliardo di euro, incluso l’effetto contagio: «Simili calcoli mi suggeriscono un incremento tra il 30% e il 50% dell’inflazione».
Nulla da obiettare, analisi lucida. Chi invece qualcosa da obiettare ce l’ha e in maniera molto chiara è la Bundesbank nel suo bollettino mensile, secondo cui «la situazione in Grecia è molto preoccupante, ma una sua uscita dall’euro sarebbe gestibile, se si affronta la crisi in modo prudente». Cosa significhi quel “prudente” mi resta un concetto oscuro, ma tant’è, io e i tedeschi sapete che ci prendiamo poco. La Buba, inoltre, mette in guardia Atene dal mancato rispetto degli impegni: le prossime elezioni potrebbero infatti mettere a rischio le misure concordate e «con questo verrebbe messo in discussione il proseguimento del programma di aiuti e la Grecia dovrebbe sopportarne le conseguenze».
Alla fine, la capitolazione: «Ogni Paese membro dell’Eurozona dovrà preparare uno scenario in vista dell’eventuale uscita della Grecia dall’euro». Lo hanno stabilito nel corso di una teleconferenza i tecnici dell’Ewg, il gruppo di lavoro dell’Eurogruppo, in pratica gli sherpa che preparano le riunioni dei ministri delle Finanze europei: «Il gruppo – ha spiegato uno dei tecnici – ha concordato che ciascun Paese dell’Eurozona prepari un piano di emergenza, individualmente, per capire le potenziali conseguenze di una fuoriuscita della Grecia». Il problema, però, è che tutte le parti in causa nella tragedia greca, sembrano dimenticare un dettaglio: non è affatto detto che per imporre controlli sul cambio (svalutazione) e sui capitali (limitazione dei prelievi) la Grecia debba uscire dall’eurozona automaticamente. Anzi, l’opzione islandese per Atene non è per nulla da escludersi, in punta di trattati. E non è nemmeno vero che se abbandona l’euro per la nuova dracma, la Grecia debba per forza uscire dall’Ue.
Già, cari lettori, la Commissione europea nel 2003 ha infatti pubblicato uno studio sulla sua “Economic Review” nel quale si esaminavano le basi legali dei Trattati europei per cambi di controllo in una fase di emergenza. Da questo si deduceva che gli Stati possono innalzare barriera con la benedizione del Trattato di Maastricht: «Tra le azioni che possono essere intraprese quando uno Stato membro conosce serie difficoltà nella bilancia dei pagamenti, gli articoli 119 e 120 permettono di reintrodurre misure quantitative di protezione contro nazioni terze». Queste misure necessitano, però, di un accordo in sede Ecofin con un voto a maggioranza qualificata e una volta ratificate, possono essere imposte per sei mesi, ma rinnovate all’infinito per lo stesso arco temporale. A dar vita a questa opzione furono alcuni funzionari francesi: che già all’epoca si temesse per uno scenario come quello attuale? Mah.
Stesso discorso per l’obbligo della Grecia di lasciare l’eurozona in caso di ritorno alla dracma, visto che – come in quasi tutto riguardi l’Ue – i Trattati al riguardo sono davvero opachi. E, guarda la combinazione, uno dei testi più citati sull’argomento è stato scritto nel dicembre 2009 proprio da un funzionario dell’Ue greco, tale Phoebus Athanassiou, autore di “Withdrawal and expulsion from the Eu and Emi: some reflections”, dal quale si evince che «un ritiro dall’eurozona senza un parallelo ritiro dall’Ue sarebbe legalmente impossibile». Balle, i Trattati non dicono affatto questo. Semplicemente, non esistono precedenti. Quindi, la Grecia potrebbe optare – con l’appoggio quasi certo di Italia, Francia e pare del Regno Unito – per due soluzioni: la prima, una formula di adesione all’Ue di tipo polacco o svedese, ovvero con moneta in fluttuazione sull’euro e un accordo pro-forma di entrare – in questo caso, rientrare – nella moneta unica quando il tempo sarà quello giusto. La seconda, la formula baltica, ovvero una partecipazione di secondo livello all’Unione, con peg fisso euro-dracma in base a un 30% di svalutazione. Nessuno potrà imporre alcune “legge” europea alla Grecia, semplicemente perché l’Ue non ha leggi ma trattati, le leggi sono nazionali, visto che devono essere ratificate dai parlamenti sovrani. La stessa Corte europea di giustizia è una farsa, visto che non è una corte ma un panel: la si può allegramente mandare a quel paese quando si vuole, insomma.
A mio avviso, le due ipotesi che ho avanzato prima di nuova partecipazione greca all’Ue sono le uniche possibili per evitare shock sistemici, contagio ad altri paesi e, contemporaneamente, non distruggere del tutto la Grecia: le crisi da svalutazione, infatti, sono molto frequenti, cicliche. E non hanno mai ucciso nessuno se gestite con il cervello acceso e non in base a Trattati che paiono scritti da Rainman: forse, quando parlava di “modo prudente”, la Bundesbank pensava a questo? Chissà, di certo c’è che si sta scherzando sempre di più con il fuoco, visto che in Grecia, Irlanda e Portogallo i depositi esteri sono crollati a un tasso medio del 52% e le detenzioni estere di bonds governativi del 33% rispetto al picco massimo.
Un trend simile in Spagna e Italia si sostanzierebbe, rispettivamente, in fughe di capitali per 215 e 214 miliardi di euro, nel caso iberico con cali dei depositi mentre in quello italiano attraverso il nostro debito. E le fughe di capitali, ce lo dice la storia, le fermano solo interventi politici decisi: tipo uno schema di garanzia sui depositi per l’eurozona, ad esempio. E guardate che non sto parlando di disgrazie possibili in un lontano futuro, sto parlando di domani, se è vero che stando a dati di Fitch «la proporzione di titoli di debito italiano e spagnolo detenuta dagli investitori privati stranieri è continuata a diminuire nel primo trimestre del 2012, durante il quale le banche finanziate con il denaro a basso costo della Bce hanno sostituito gli investitori istituzionali internazionali. Ci attendiamo che questo trend continui anche nei prossimi trimestri».
Di più, «il ritmo di ritiro dei fondi da parte degli investitori non residenti è accelerato in particolare in Spagna con una percentuale scesa al 34% dal 40% alla fine del 2011, un computo che non tiene conto degli holding della Bce in base al programma di acquisto di bond. La percentuale, che nel 2008 era al 60%, è in costante diminuzione da allora. La flessione degli holding di titoli di debito italiano da parte dei privati stranieri ha seguito invece una strada diversa. L’uscita complessiva è stata inferiore che in Spagna – e la percentuale di titoli detenuta dai privati era circa al 50% nel 2008 – mentre il deflusso è iniziato solo nel terzo trimestre 2011. Nondimeno ora la percentuale di holding detenuti da privati stranieri è scesa al 32% e continua a calare, sebbene a un ritmo inferiore».
Professor Monti, imiti la Thatcher a Fontainebleu: certo, lei non ha la borsetta da sbattere sul tavolo, sbatta ciò che vuole, ma alzi la voce e lo faccia in fretta. Ormai siamo al countdown