I giornali di qualche giorno fa davano la notizia dell’audizione del Ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schauble, presso la Corte Costituzionale tedesca, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità del patto fiscale europeo e sul fondo salva-stati Esm, già peraltro approvati dal Bundestag il 29 giugno. Così Carlo Bastasin commentava sulla prima pagina de Il Sole 24 Ore dell’11 luglio: «Il Presidente della Corte costituzionale tedesca chiede ieri mattina al rappresentante del Governo: “Quanto tempo ci date per valutare se il fondo di stabilità europeo è legittimo, prima che si abbiano conseguenze negative sui mercati finanziari?” E lo sventurato risponde: “Qualche settimana…” Dunque un paio di settimane dopo le tre normalmente necessarie, i giudici tedeschi decideranno se far crollare l’euro prima che l’euro sia già crollato».
Si ripropone uno dei grandi nodi sollevati dalla crisi che stiamo vivendo, uno dei cambiamenti più profondi e strutturali che sta investendo la nostra società: l’asincronia tra i tempi della politica e i tempi dei mercati. I mercati finanziari operano in tempo reale, 24 ore su 24, su scala globale, e più sono efficienti più reagiscono immediatamente a nuove notizie. Ogni istante, rivedono il valore degli asset in portafoglio ed eventualmente riallocano la ricchezza gestita. Se oltre a essere efficienti sono anche grandi, i loro movimenti sono in grado di condizionare le sorti dei soggetti economici che da essi dipendono per il finanziamento della propria attività, soprattutto imprese e Stati. Quando un debitore attraversa delle difficoltà, i mercati chiedono risposte rapidissime. I mercati, si dice, non amano l’incertezza. Ancora meno, forse, amano l’attesa.
Se il debitore in difficoltà è un’impresa, essa può essere in grado di fornire rapidamente ai mercati i segnali richiesti. Non necessariamente un miglioramento dei risultati, che richiede tempo, ma un cambiamento di leader, una ristrutturazione organizzativa, una scelta strategica in grado col tempo di raddrizzare le sorte dell’azienda. Nel caso degli Stati, questo è tutto più difficile, perché le dinamiche di cambiamento passano attraverso processi decisionali politici e di natura democratica. Nelle moderne democrazie liberali, a differenza dei regimi totalitari, i tempi della politica sono necessariamente lenti. Soprattutto se le decisioni da prendere sono: rilevanti e con un grande impatto sulle finanze pubbliche; restrittive e non espansive, improntate ai sacrifici più che all’assistenza o allo sviluppo; urgenti e non programmate, quindi prive del consenso degli elettori in quanto non presenti nei programmi elettorali.
Di fronte a tali scelte, i processi decisionali sono lenti e difficili. L’individuazione delle soluzioni non può ignorare completamente la ricerca del “consenso popolare”, non può non prevedere livelli seppur minimi di negoziazione e concertazione. A maggior ragione non possono che essere lente e complesse le scelte che interessano profondi cambiamenti istituzionali e chiamano in causa più Stati sovrani. E proprio questo è il tema in discussione, cioè la rinuncia a una quota di sovranità nazionale per costruire un’Europa unita politicamente ed economicamente, oltre che monetariamente.
Su questo i mercati chiedono risposte rapidissime, ma la politica non può essere in grado di darle. Finché tali risposte non arriveranno, continuerà l’agonia degli stati periferici e non ci sarà ripresa. Fino a quando i mercati decideranno di non concedere più ulteriore tempo all’Europa e allora sarà difficile evitarne il crollo.
Da questo punto di vista, la fase 2 della crisi, con l’intervento degli Stati in soccorso delle banche e la trasformazione del debito privato in debito pubblico, ha peggiorato le cose. Sia perché, ovviamente, il fallimento di uno Stato è più grave di quello di una banca, sia perché gli Stati, se attaccati dai mercati, sono più lenti a reagire delle imprese e da questo punto di vista più fragili.
Nello scenario descritto, la notizia nuova è che rispetto al passato il peso dei mercati è aumentato in modo decisivo, conseguenza dell’eccezionale sviluppo della finanza (i soli prodotti derivati hanno una dimensione dieci volte superiore a quella dell’intera produzione di beni e servizi mondiale). La notizia brutta è che il problema descritto pare di difficilissima soluzione. È arduo riuscire a sincronizzare i tempi.
Da un lato, non è facile e nemmeno auspicabile “rallentare i mercati”, cioè sgonfiare la finanza, cercare di tornare ai mercati finanziari del passato: piccoli, su base nazionale (autarchia finanziaria) e inefficienti. La “repressione finanziaria” non ha mai portato a esiti felici. Certo, occorre aumentare i livelli di regolamentazione finanziaria, ma come si fa a operare per rendere il sistema finanziario più lento e meno efficiente? D’altra parte, non si può nemmeno “accelerare la politica”. Non lo si può fare rinunciando ai processi decisionali democratici, né adottando scelte complesse che coinvolgono il futuro delle nostre società n modo impulsivo, senza adeguata ponderazione e senza confronto dialettico tra le parti.
Rendere più efficiente la politica, così come regolamentare la finanza, ridurrà i divari temporali, ma basterà a risolvere un problema che è di natura strutturale e riguarda i diversi naturali orizzonti temporali con cui operano soggetti così diversi? E nell’impossibilità di conciliare i diversi tempi decisionali, saremo costretti a scegliere tra la rinuncia alla sovranità nazionale democratica oppure a un moderno ed efficiente mercato finanziario?
Una sfida formidabile, dunque. Che richiede, accanto a una rinnovata passione per il bene comune e le sorti della nostra società, anche potenza di pensiero e innovatività di soluzioni.