«Nessuna fretta nel ritiro delle misure non convenzionali di stimolo all’economia: la strada dell’uscita dagli aiuti deve dipendere dalla ritmo della ripresa». Così il direttore generale del Fmi, Christine Lagarde, ha dettato la linea al simposio annuale della Fed di Kansas City a Jackson Hole. La Lagarde ha invitato a collaborare e a «non sprecare lo spazio offerto dalle misure di politica monetaria non convenzionali per agire a sostegno della crescita. La politica monetaria da sola sono può fare tutto, non può rispondere a tutte le domande e non può risolvere ogni problema economico». Quindi, «servono riforme strutturali per gettare le fondamenta di una crescita durevole e duratura». Il direttore generale del Fmi si è soffermata su un’analisi delle misure non convenzionali di stimolo, mettendone in evidenza i rischi: «Sotto molti punti di vista le banche centrali sono state gli eroi della crisi finanziaria, con le loro eccezionali azioni hanno aiutato ad allontanare il mondo dal precipizio di un’altra Grande Depressione. Ma le politiche monetarie non convenzionali includono il navigare in un nuovo mondo. È come entrare in una stanza buia ma io resto ottimista. Le banche centrali hanno gestito bene l’entrata e non vedo nessun motivo per il quale non dovrebbero gestire altrettanto bene l’uscita». Insomma, il Fondo monetario – di fatto nulla più che il nume tutelare di ogni creditore internazionale attraverso la politica capestro del binomio aiuti/riforme forzate – si è espresso sul cosiddetto “taper”: calma, si compri ancora per un po’. E che questa ipotesi non sia poi così peregrina lo testimonia un’altra cosa, ovvero la strategia statunitense che si sta dispiegando in questi giorni: smetterla di offrire al mercato una visione distorta della ripresa dell’economia, rendere noti i dati in modo da indurre una correzione sul mercato azionario ma contemporaneamente spingere al ribasso i rendimenti dei titoli di Stato, vera e grande preoccupazione della Fed. Venerdì, dopo aver sfondato quota 2,90% e flirtato per un attimo con il 3%, il Treasury a 10 anni ha vissuto una brusca inversione, piombando in area 2,81% “grazie” al pessimo dato giunto dal mercato immobiliare, strettamente connesso alle dinamiche del debito, visto che va a impattare sui tassi dei mutui. Le vendite di nuove case mono-familiari è scesa, infatti, molto pesantemente in luglio, toccando il livello minimo da nove mesi: -13,4% su base annuale, a quota 394mila unità. Ieri, poi, la riprova. Stando ai dati del dipartimento del Commercio statunitense, a luglio, gli ordini di beni durevoli sono scesi del 7,3%, ben più di quanto atteso dagli analisti che avevano stimato un ribasso del 4%. Sul risultato ha pesato il settore trasporti, visto che escludendo tale comparto, infatti, gli ordinativi a luglio hanno mostrato un calo dello 0,6%. E come ha reagito il rendimento del decennale a questa notizia? Ve lo mostra il primo dall’alto di questi grafici. Un fenomeno, questo, che è già stato ribattezzato sindrome della “bad-news-is-good-news”. Un cane che si morde la coda, quindi: se l’economia migliora, Wall Street vola ma i titoli di Stato pagano un rendimento più alto sui timori che la Fed smetta o rallenti gli acquisti. Se invece l’economia manda segnali negativi, Wall Street rallenta la corsa ma gli investitori acquistano debito Usa, visto che prezzano una continuazione del programma di stimolo. Come uscire da questa situazione, senza mandare scossoni eccessivi, come quelli che hanno fatto vivere ai mercati emergenti la peggiore settimana da dieci anni a questa parte? Difficile dirlo, visto che nemmeno la Fed ha la minima idea su come operare. 



I rendimenti del Treasury decennale la scorsa settimana hanno toccato i massimi da due anni e questa settimana potrebbe conoscere nuove oscillazioni al rialzo, visto che il Tesoro Usa metterà in asta 98 miliardi di nuovo debito sulle scadenze a due, cinque e sette anni. Inoltre, l’attesa per il prossimo meeting della Fed, previsto per il 17 e 18 settembre, potrebbe innescare una certa volatilità implicita, altra pessima consigliera per gli investimenti. Due settimane fa, la Fed deteneva il 31,47% di tutti i Treasuries a dieci anni, la scorsa questa percentuale era già salita al 31,59%, dati che espressi in triliardi di dollari ci dicono che si è passati da 1,648 a 1,663, portando a una diminuzione del debito disponibile sul mercato per il settore privato da 3,602 a 3,589 triliardi. Dette così, queste cifre possono non impressionare ma la Fed è spaventata dal fatto che queste variazioni possano impattare sul funzionamento di un mercato già di per sé illiquido. Tutto questo non fa che portare sempre di più il mercato a porsi short sull’opzione di un “taper” della Fed, quindi molti investitori scelgono una strategia di copertura dal rischio che vede vendere la durata e comprare il volume. Detto fatto, il decannale – il benchmark – viene scaricato, i rendimenti salgono e la Fed si trova costretta ad acquistare, squilibrando le dinamiche di acquisizione e detenzione dei Treasury sul mercato di capitale. Difficile, in queste condizioni di incertezza, uscire da questa situazione, anche perché sono parecchi i fattori tecnici (outflows da fondi obbligazionari, riduzione della domanda di debito da parte delle banche, vendita di riserve) che depongono a favore di un aumento dei rendimenti. L’unica strada è quella di inversione tecnica dovuta a un peggioramento della condizioni economiche, serve quindi quello che in gergo si chiama “turn for the worse”. Non stupitevi, quindi, se i prossimi dati macro che arriveranno dagli Usa saranno tutt’altro che orientati alla ripresa. A testimoniarlo anche il coro unanime che giunge dai centri studi delle principali banche d’affari, ultima delle quali Sociètè Generale giovedì scorso, a detta dei quali negli ultimi due trimestri dell’anno potremmo assistere a un outflows di 100 miliardi di dollari dal mercato azionario Usa in direzione di quello europeo. Anzi, il processo sarebbe già in corso, spinto non solo dai timori del “taper” ma anche dal dato sul Pil dell’eurozona recentemente pubblicato da Eurostat che ha mostrato un miglioramento della crescita, ad eccezione dell’Italia. Quindi, la condizione ideale per cogliere i cosiddetti “green shots”, visto che ad oggi i titoli azionari dell’eurozona non prezzano quasi per nulla la ripresa, se non in pochi indici e in determinati settori. Il Ftse100 di Londra ha conosciuto un rally dell’8,36% da inizio anno, il Dax tedesco dell’8,84%, mentre l’indice paneuropeo Euro Stoxx 50 del 5,26%. Poco, rispetto al +15% dell’S&P 500 di New York e al +29% del Nikkei giapponese: quel delta di differenza, potrebbe ora essere magari non colmato ma limitato dagli outflows statunitensi verso l’Europa. E non solo Société Générale la pensa così ma anche Nomura, Bank of America-Merrill Lynch e JP Morgan, tutte ottimiste sulla scorta di quel +0,3% di crescita nell’eurozona del secondo trimestre di quest’anno, il primo dato positivo dal terzo trimestre del 2011. E i portafogli d’investimento parlano chiaro: Oakmark International Fund è nettamente overweight sull’Europa, soprattutto sui titoli finanziari del Vecchio Continente. Giovedì scorso l’indice Euro Stoxx Banks ha toccato i 181 punti, dal minimo di 75 dello scorso anno e dal massimo di 490 del maggio 2007. Per Christian Gattiker, capo del centro ricerche di Julius Bar, l’Eurostoxx 50 da qui a fine anno potrebbe conoscere un aumento compreso tra il 20 e il 30%. Ma attenzione, i nodi verranno comunque al pettine. 



Per Steen Jakobsen, capo economista di Saxo Bank, uno che ci prende quasi sempre, il Dax tedesco potrà tranquillamente crescere di un altro 10% ma la “free ride” non andrà oltre il terzo trimestre di quest’anno: «Il 2014 potrebbe davvero essere un anno orribile e, paradossalmente, questo mini-rally potrebbe essere una sveglia che ci ricorda cosa ci attende. Tutte le ciclicalità si andranno a sommare il prossimo anno». Il perché di questa negatività sta proprio nella prospettiva di normalizzazione dei tassi d’interessi Usa e nelle difficoltà che si pareranno sul cammino delle riforme del sistema sanitario statunitense. Direte voi, la giornata borsistica di ieri sembra contraddire in pieno quanto letto finora. Vero ma la situazione va letta: Londra era chiusa per festività, gli altri indici hanno perso sulla scia delle tensioni in Siria ma non sono crollati, tanto che Francoforte a metà seduta lasciava sul terreno solo lo 0,27%. L’unico tonfo davvero impressionante è stato quello di Piazza Affari ma ovviamente sapete tutti il perché: l’agonia del governo Letta non può che innescare vendite e instabilità, facendo ingolosire la speculazione. Inoltre, l’ultimo siluro sparato dal presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, certamente non ha aiutato. Intervistato da Handelsblatt, il numero uno della Buba ha dichiarato di non aspettarsi che «i tassi rimangano bassi per degli anni. Gli stimoli derivanti dalla politica monetaria ultra-accomodante sulla congiuntura diminuiscono e i rischi per la stabilità finanziaria aumentano. Le banche centrali non possono risolvere la crisi, poiché i problemi che sottendono ad essa non sono legati alla politica monetaria. I dibattiti mostrano che la crisi non è finita e che c’è ancora molto da fare per superarla». La Germania sembra aver capito la lezione che giunge dagli Usa e anche i segnali che i mercati mandano ad intermittenza depongono per un’Ue sempre più divisa in due, nucleo forte guidato da Berlino e “periferici” costretti a subirne i diktat o ad andare incontro a conseguenze che non possono escludere a priori l’uscita dall’Unione. I soldi a pioggia delle manovre di stimolo stanno cercando una collocazione, si muovono frenetici e nervosi da un capo all’altro del mondo: potrebbero scegliere l’Europa per l’autunno ma questo non significa che si fermeranno. Attenzione, quindi, agli scossoni per outflows inaspettati: più si sale, più si rischia di farsi male cadendo. Una crisi di governo al buio, in un contesto simile, significa suicidarsi. Anche perché sono oltre 122 i miliardi di euro di debito pubblico da rinnovare entro la fine dell’anno. Dopo la pausa estiva arrivano infatti a scadenza 74,5 miliardi di Bot, 37,8 miliardi di Btp e 10,6 miliardi di Ctz per complessivi 122,9 miliardi, titoli che vanno rimborsati e che richiederanno nuove emissioni da parte del Tesoro. Lo ha rilevato il Centro studi Unimpresa, a detta del quale si tratta di «un’enorme quantità di denaro per cui una eventuale crisi della maggioranza e una caduta del governo potrebbero avere ripercussioni pericolose su spread e tassi di interesse». Il calendario delle scadenze dei titoli in circolazione previsto per l’ultimo quadrimestre del 2013 è intenso: a settembre scadono 30,3 miliardi di emissioni, quasi il doppio rispetto a quelle in agenda per ottobre, quando arrivano a fine corsa 18,4 miliardi di titoli. A novembre, invece, andranno rimborsai 34,4 miliardi, mentre a dicembre si sale fino a 39,6 miliardi. Si comincia già oggi, con 4 miliardi di titoli all’asta. Qualcuno dica ai professionisti della crisi di governo che rischiamo davvero grosso, rischiamo di fare i conti con una brutta parola: default.