Dopo il blitz speculativo dello scorso fine settimana, sui mercati persistono – seppur con cali meno marcati, escludendo Londra – segni negativi caratterizzati dalla debolezza: da un lato si pensa infatti che il lungo rally rialzista sia ormai finito e quindi si comincia a scaricare e prendere profitto, dall’altro si teme che il peggio sia dietro l’angolo. O, almeno, possa esserlo. A ragionare in questi termini è la numero uno del Fondo monetario internazionale, Christine Lagarde, che dal Forum di Davos si è lasciata andare al secondo avvertimento diretto verso la Federal Reserve in sei giorni: «La rotta presa da equity e valute nei mercati emergenti degli ultimi giorni potrebbe subire una pericolosa escalation se la Fed bloccherà la liquidità globale in dollari, soprattutto in quei paesi vulnerabili a causa dell’incapacità di gestire i propri disequilibri. C’è un rischio destabilizzante. Nel nostro orizzonte c’è chiaramente un nuovo rischio e dobbiamo tenerlo d’occhio».
D’altronde, quanto accaduto in Argentina è suonato come un campanello d’allarme per tutti, visti gli immediati effetti a catena in Turchia, Brasile, Russia e India. Persino il dollaro australiano è sceso ai minimi da tre anni, proprio a causa dell’impatto che i dati poco incoraggianti giunti da Cina e altre nazioni asiatiche hanno avuto sulle commodities. E la Lagarde pare in buona compagnia, visto che il capo di Blackrock, uno dei fondi più grandi al mondo, ha detto chiaramente a Davos che «in alcuni mercati emergenti stiamo vedendo molto stress. Gli investitori hanno grosse posizioni su quei mercati e ora cominciamo ad assistere al disvelarsi della realtà. Il “taper” della Fed, a mio avviso, è stato solo un catalizzatore per problemi ben più profondi: alcune nazioni non hanno compiuto le necessarie riforme strutturali e, inoltre, sono sovra-dipendenti dalla Cina, scontandone qualsiasi problema o rallentamento».
A conferma di questo c’è il dato dell’India, visto che il tasso di crescita del Paese è sceso dall’8% al 5%, soprattutto per ragioni che non hanno nulla a che fare con dinamiche estere o globali: semplicemente, è giunta una stretta strutturale della domanda interna e un deterioramento macro dei dati nazionali. E si comincia a temere – e non poco – l’impatto che le nuove regole di Basilea III potranno avere sul credito, ovvero sulla capacità e volontà delle banche occidentali di mantenere aperti i rubinetti che in questi anni hanno permesso gli inflows di capitale verso i paesi emergenti, gli stessi che patirebbero in maniera ancora peggiore questa ipotesi rispetto anche al “taper” della Fed.
Dal biennio 2008-2009 si sono riversati sui mercati emergenti qualcosa come circa 4 triliardi di dollari di capitali esteri, tutto denaro finito in obbligazioni, equities o strumenti finanziari liquidi che possono essere scaricati molto facilmente e in fretta. E questo è il grande timore, la paura che ha funzionato da driver dei mercati giovedì e venerdì: se quel capitale dovesse essere rimpatriato troppo in fretta, l’effetto cascata sarebbe immediato. E potenzialmente devastante. C’è anche chi vede il proverbiale bicchiere mezzo pieno, come Tidjane Thiam, capo del fondo Prudential, che gestisce assets per 800 miliardi di dollari, a detta del quale non bisogna farsi impressionare troppo da quanto sta accadendo nei Paesi emergenti e in Asia: «Stiamo solo assistendo a un aggiustamento necessario nel sistema. Alcune di quelle valute devono scendere perché erano sopravvalutate, l’import deve calare e le esportazioni ripartiranno, riportando tutte le cose in equilibrio».
C’è invece chi, soprattutto tra le grandi compagnie assicurative europee, teme che la situazione potrebbe precipitare, con Turchia e Venezuela a fare da apripista a una crisi più generalizzata nell’area. Insomma, tempi molto delicati, giorni che non necessitano di gesti di destabilizzazione, soprattutto a freddo. E invece, casualmente ma come vi avevo detto di aspettarvi almeno un mese abbondante fa, ecco che la Bundesbank sceglie proprio questi giorni per tirare la sua bomba a mano nello stagno: un prelievo una tantum sui capitali privati in caso di salvataggio sovrano. Questo propone, infatti, l’istituto guidato da Jens Weidmann per i paesi europei a rischio fallimento (e in questo caso la volontà destabilizzatrice diventa addirittura perfidia, visto che la banca centrale tedesca non ha il coraggio di fare apertamente l’elenco dei paesi a rischio). L’ipotesi era già stata sollevata proprio dal Fondo monetario internazionale in un report dello scorso ottobre che aveva fatto molto rumore, ma lo stesso Fmi aveva poi spiegato che si trattava di un caso puramente teorico e non di una raccomandazione. Fatto sta che nel report era stato calcolato che per riportare i debiti pubblici di 15 paesi di Eurolandia ai livelli precedenti il 2007, anno in cui è scoppiata la crisi finanziaria globale, sarebbe stato necessario un prelievo una tantum del 10% sulla ricchezza delle famiglie.
La Bundesbank è molto più chiara sulle sue intenzioni, affermando esplicitamente nel suo report mensile che «nel caso eccezionale dell’incombente bancarotta di un Paese, un prelievo una tantum sui capitali dovrebbe avere più successo di altre opzioni». A detta della Buba, «una tassa sui capitali corrisponderebbe al principio della responsabilità nazionale, in base al quale i contribuenti sono responsabili delle obbligazioni del proprio Paese prima che venga richiesta la solidarietà internazionale». Bontà sua, la Bundesbank ammette che questa soluzione comporta “rischi significativi” ed è di difficile attuazione ma tuttavia, al contrario del Fmi, non fa nulla per nascondere che il prelievo forzoso è la sua opzione preferita per risolvere il problema del debito pubblico.
Detto fatto, ieri le banche sono state il settore che ha ancorato al ribasso i listini per una parte abbondante della giornata di trading e gli spread hanno ricominciato a muoversi. Ora, la Buba ha tutto il diritto di avanzare le proprie proposte, ci mancherebbe, il problema è che a mio avviso sarebbe giunto il momento di andare a Bruxelles a sbattere i proverbiali pugni sul tavolo, visto che se la potente banca centrale tedesca non fa niente per evitare tensioni sui mercati, anzi, dall’altro la stessa Europa a guida tedesca che ci vuole imporre il prelievo forzoso si mostra alle soglie del ridicolo e del farsesco quando si muove per truccare i conti.
Sapete infatti come farà, nelle statistiche ufficiali, la Grecia a uscire dalla recessione e addirittura tornare a crescere quest’anno? Semplice, grazie alla nuova metodologia di Eurostat che entrerà in vigore dal prossimo ottobre, in base alla quale Atene vedrà il suo Pil crescere miracolosamente di 3 punti percentuali, riducendo storicamente il livello di recessione della propria economia a un misero 0,3%, qualcosa di cui andare addirittura fieri. Insomma, grazie a questa nuova metodologia, quest’anno il Pil greco crescerà del 3,6%, molto più dello 0,6% delle previsioni – quelle reali – e addirittura più di quanto cresceranno gli Usa. C’è poi da chiedersi un’altra cosa, ovvero cosa sa la Bundesbank che gli altri non sanno per lanciare una provocazione simile in un momento di così grande delicatezza sui mercati? Forse, proprio che l’intera ripresa europea che ci stanno vendendo da settimane è basata su trucchi contabili degni della gestione Parmalat di Fausto Tonna e quindi prepara il terreno per non far pagare ai suoi cittadini-contribuenti imminenti default o ristrutturazioni del debito, stante l’inutilità e la disponibilità residuale dei fondi di salvataggio europei?
Sapete, ad esempio, come ha fatto la Spagna a fare un po’ di maquillage ai suoi conti pubblici, tanto da regalare ai mercati la favoletta dell’uscita dalla recessione, garantendosi spread e corsi azionari dell’Ibex assolutamente sconnessi dalla realtà macro? Ve lo dico io, prelevando nel corso del 2013 qualcosa come 11,6 miliardi di euro dalle riserve del Fondo pensionistico nazionale, ora scese a 53,7 miliardi di euro e stornandole altrove come entrate o maggiori risparmi. E non basta. Vogliamo parlare del dato della disoccupazione, anch’esso taroccato malamente sul finire dello scorso anno? Bene, la Spagna sta vivendo perdite di posti di lavoro da sei anni di fila: 198.900 persi lo scorso anno e 3,5 milioni dall’inizio della crisi nel 2008. Lo scorso anno in 1.832.300 nuclei familiari nessun componente lavorava, un aumento dell’1,36% rispetto all’anno prima e ben 686.600 nuclei familiari non potevano fare affidamento su alcun reddito, né ammortizzatore sociale, esattamente il doppio del 2007. Ma c’è di più, molto di più. Stando alle statistiche sull’impiego, i lavori a tempo indeterminato sono scesi di 269.000 unità, mentre i contratti a tempo determinato saliti di 81.300 unità. Direte voi, c’è la crisi, tocca accontentarsi. Vero, peccato che i lavoratori spagnoli tra ottobre e dicembre dello scorso anno abbiano lavorato 5,86 milioni di ore extra ogni singola settimana, su dell’1,84% rispetto al 2012. Questo si sostanzia in cosa? Nel fatto che il 57,7% di quelle ore extra non è stato pagato ma si è trasformato magicamente, nelle statistiche ufficiali, in 146.500 nuovi occupati.
Altro che fausto Tonna, ragazzi! Questa è l’Europa, cari lettori. E questa è la stessa gente che vuole il prelievo forzoso sui nostri conti corrente: penso sia giunto il momento di riflettere seriamente se questa è l’Europa che vogliamo e che ci serve. O se sia giunta l’ora di dire basta e addio.