Continuando la riflessione sulla sovranità di una nazione, a partire anche dalle recenti dichiarazioni di Mario Draghi, secondo cui “i paesi con alto debito l’hanno persa”, pare ora utile segnalare alcuni elementi riguardo le cause effettive dell’eccessivo indebitamento di alcuni stati.
L’attuale situazione sembra riprodurre quella che si aveva al momento dell’avvio dell’unificazione, allorché fu notato che qualora l’Italia non fosse riuscita a colmare il divario rispetto ai paesi più forti – e ciò mediante “grossi sacrifici” (tra i quali una sostanziosa riduzione dell’organizzazione pubblica: cfr. G. Guarino, Pubblico e privato nella economia. La sovranità tra Costituzione ed istituzioni comunitarie, in “1989” Rivista di Diritto Pubblico e Scienze Politiche, Napoli, 1991, pp. 11 ss.) – acquistando la capacità di concorrere a codeterminare il mercato comune, essa sarebbe stata destinata a subire una sorta di eterodirezione, che – possiamo aggiungere – avrebbe comportato un mutamento della causa degli atti di stipulazione dei Trattati, da conferimento di alcuni ambiti della sovranità (ma, si ripete, solo quoad exercitium) alla rinuncia a tale “bene costituzionale primario”.
Alla stregua del Trattato Ue, gli Stati membri restano titolari della funzione di politica economica (cfr. art. 120 ss. Tfue), dovendola “attuare” al fine di contribuire alla realizzazione degli obiettivi di cui all’art. 3 Trattato Ue e sotto il presidio di una sorveglianza multilaterale, ritenuto necessario per la garanzia di coordinamento di tali politiche e di convergenza duratura dei risultati economici.
Introdotta la moneta unica, con la relativa, notoria, sottrazione agli Stati di poteri di governo dell’economia – in vista, nell’ottica dei Trattati, della graduale sostituzione dell’esercizio statale della sovranità nazionale con forme di esercizio unitario – questi (in un contesto che dovrebbe essere di costante cooperazione solidale tra le collettività) avrebbero potuto e dovuto utilizzare la (sola) leva dell’indebitamento per il perseguimento sia delle funzioni loro riservate, sia di quelle cosiddette di benessere e di crescita, indispensabili all’instaurazione e/o al mantenimento delle suddette condizioni di convergenza duratura – a loro volta necessarie con ogni evidenza, ai fini di una unificazione tra pari (arg., per quanto riguarda l’Italia, ex art. 11 Cost.) – contenendosi nei limiti tendenziali di cui all’art. 126 Tfue (ex art. 104 Trattato Ce) e fatti salvi casi eccezionali e temporanei (i quali, a mente dell’art. 122, co. 2, Tfue, possono essere presupposto di ausili finanziari dell’Unione agli Stati membri), ma tenendo conto “della specificità delle concrete condizioni dell’economia del proprio Paese” (G. Guarino, Cittadini europei e crisi dell’Euro, Napoli, 2014, p. 46): il superamento duraturo di tali limiti, pur a fronte di raccomandazioni del Consiglio, significativamente non può condurre alla “espulsione” dello Stato che se ne sia reso responsabile.
I criteri di cui all’art. 126 Tfue sono evidentemente tra loro coordinati: peraltro, in difetto degli altri strumenti, la capacità e il potere di indebitamento sono essenziali al fine di favorire, come si è detto, la crescita economica e, quindi, per ridurre il rapporto debito/Pil, condizione, questa, di primario rilievo per poter procedere all’unificazione politica in situazione, giuridica e fattuale, tale da preservare, a tutti i popoli europei, libertà e indipendenza. L’attenzione delle istituzioni di sorveglianza, tuttavia, è stata per lungo tempo concentrata sul rispetto del criterio dell’indebitamento e molto meno su quello del rapporto debito/Pil, conseguendone che i paesi più esposti sotto tale profilo (tra i quali l’Italia) hanno visto peggiorare la loro condizione.
In tale scenario è intervenuto il Regolamento n. 1466/1997 che, probabilmente in violazione anche delle norme procedurali all’uopo pretesamente applicate, ha introdotto il Patto di stabilità e di crescita, di fatto sostituendo ai criteri di cui si è appena detto l’obiettivo del pareggio di bilancio e determinando un’alterazione non solo puntuale, ma generale e sistemica del quadro ordinamentale europeo, con ricadute sui mezzi e sugli scopi dell’unificazione.
Tale atto normativo (nonché quelli, di analoghi contenuto e finalità, che vi hanno fatto seguito, sino al notissimo Fiscal compact) ha dato luogo a “impulsi” che hanno via via costretto gli Stati che versavano nelle suddette condizioni a utilizzare i residui strumenti di politica economica al fine preminente e condizionante rispetto a ogni altro di riduzione del debito: con la conseguenza, chiara ormai a tutti, di sterilizzare il quadro economico-produttivo, generando così un inevitabile ulteriore aumento dell’esposizione debitoria.
Frattanto – mentre anche i patrimoni dei cittadini subiscono progressivo decremento a causa del suddetto scenario, facendo riaffiorare l’antica constatazione secondo cui, al postutto, il debito statale trova garanzia nel lavoro e nei beni del popolo – il “vuoto di potere” così creatosi – e da più parti e con varietà di accenti denunciato – rende ancor più evidente e più drammatica l’incompiutezza del procedimento di successione tra enti politici, che, secondo quanto si è detto, avrebbe dovuto condurre a rimettere alle istituzioni europee l’esercizio di quote sempre più ampie di funzioni sovrane.
Gli Stati, insomma, conservano la titolarità del “lato passivo” della sovranità e, dunque, la responsabilità di bilancio, mentre sul versante attivo il “trono” è vacante e si versa in una situazione di interregno che agevola l’insorgere e lo svolgersi di “conflitti egemonici”. Un’illegittima torsione causale ha così reso le istituzioni comunitarie sede piuttosto di procedimenti risolutivi di tali conflitti, con esiti che inducono a sollevare più di un dubbio di conformità al principio di parità di cui all’art. 11 Cost. e la correlativa questione circa le misure che possano adottarsi per salvaguardare le prerogative statuali ed evitare che la collettività sia soggetta a eventi che, per radicalità degli esiti, possano assimilarsi a una debellatio, sino a quando l’azione delle istituzioni europee non sia stata effettivamente riportata nell’alveo delineato dai Trattati e non vi siano concrete garanzie in ordine al compimento del processo di unificazione politica non già a qualunque condizione, ma secondo l’iter e con le modalità e per le finalità di cui ai Trattati medesimi.
L’ipotesi del recesso dall’Eurosistema, della quale si parla con sempre maggiore frequenza, ma non sempre con il dovuto grado di approfondimento tecnico, merita certamente di essere considerata e ci si ripromette di farlo, su queste pagine, in una prossima occasione: conviene, però segnalare sin d’ora che la recente riforma di Bankitalia, sulla quale ci si è intrattenuti più volte, ha, se non altro, allontanato la disponibilità delle riserve auree quale risorsa alla quale fare ricorso per garantire l’eventuale emissione di moneta nazionale.
Non può peraltro tacersi che, alla stregua del Trattato Ue, “ogni Stato membro può decidere, conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall’Unione”, dovendo a tal fine negoziare un accordo: ognun vede che tale eventualità presenta molti profili di criticità; l’attivazione del procedimento, però, potrebbe consentire di ottenere un opt-out dalla moneta unica.
D’altra parte, il perdurare della situazione attuale e, più ancora, il suo peggioramento, incidendo, come si è visto, sulla sovranità, non può non riflettersi, inevitabilmente, sui lineamenti delle nostre forme di Stato e di governo, alterandoli e compromettendo – vi si è fatto cenno – la stessa qualificazione della collettività italiana in termini di ordinamento originario e indipendente.
(2- fine)